martedì 4 dicembre 2007

PICCOLE FARFALLE MECCANICHE

Blackout?
Tutto buio, all’improvviso.
Occhi spalancati nell’oscurità, nero di pece che cola sulle palpebre.
E spari.
Vicini. Fragorosi, assordanti.
Lacerazioni e ferite profonde. Istantanee di dolore, impresse nel buio. Il sangue scuro e denso come catrame.
Non siamo innocenti, nemmeno noi, che tentiamo di scampare al massacro.
Non siamo innocenti, se non proviamo a fermare il tiro al bersaglio, a riaccendere la luce, e a smascherare gli assassini.
La nostra colpa? Non avere occhi, orecchie e mani in grado di guidarci tra le nebbie che avvolgono il deserto del reale.
Immagini e parole. Immagini abbaglianti, travolgenti, vuote. Parole taglienti come lame, veloci come proiettili. Immagini di un passato mai esistito, di un futuro che forse non si realizzerà. Parole impazzite, caotiche. Immagini accelerate e dissolte di un mondo catturato in flow motion. Parole e immagini che non lasciano nessuno spazio all’immaginazione.
È come se queste immagini e queste parole - sparate dalle mitragliatrici massmediatiche - non avessero profondità, fossero impenetrabili ad uno sguardo che ne accarezza la superficie e scivola via, sulla loro patina lucida, per rimbalzare ancora, sulle immagini successive, senza sosta.
L’occhio e l’orecchio non sono trasparenti: non riescono più, da soli, a cogliere l’anima delle cose. O forse è quello che c’è fuori a non essere più trasparente, a non voler più essere interpretato. Frastagliati in mille schermi, il mondo e la vita esplodono in schegge accecanti, pericolosi frammenti di vetro. Come nel finale di Zabriskie Point di Antonioni: il monitor in frantumi, il senso disperso e fatto a pezzi.
È questa la nostra realtà?
Natural born cyborgs. Ecco cosa siamo.
Viviamo immersi in una modernità liquida, in una placenta di informazioni, in un liquido amniotico appiccicoso di video, voci, scritte. Siamo i bersagli continui di cartelloni pubblicitari, radio accese, servizi telegiornalistici. “Shoot, dont’t think”, recitava lo spot di una macchina fotografica: “Spara, non pensare”. A cosa servono oggi lo sguardo, il pensiero?
“Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. La televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione” (in Videodrome, di Cronenberg).
I telegiornali e il finto giornalismo stabiliscono le priorità. Un truculento fatto di sangue conquista l’attenzione di milioni di spettatori. La politica rimane un bambinesco gioco di reciproche accuse e frecciate. I tifosi violenti uccidono lo sport. E i reality show regalano emozioni imperdibili.
Cosa succede quando la televisione colonizza il Reale, facendo di tutto per impedire allo spettatore di trovare un senso nelle immagini, di creare un’interpretazione?
Cosa succede quando la realtà scivola dall’altra parte dello schermo televisivo, senza essere nemmeno confezionata come storia, ma spacciata per vita vera, spogliata di ogni dimensione metaforica, resa brutalmente fruibile alla vista?
Succede che viene eliminata la distanza dello sguardo, la distanza tra il soggetto e l’oggetto. Quello spazio - uno spazio magico, in cui può esserci il tutto e il niente, o semplicemente la vita - necessario per la costruzione di una relazione basata sullo scambio, sul contatto, sulla reciprocità.
L’immagine finisce per coincidere con il reale, senza più riuscire ad immaginarlo.
Come se le cose si fossero inghiottite gli specchi che le riflettono, fondendosi in una nuova dimensione, che è la dimensione della simulazione, della fusione tra la realtà e la sua immagine, ormai coincidenti e sovrapponibili.
Cosa possiamo fare, per difenderci e sfuggire all’inferno del vedere, se non chiudere gli occhi? Abbassare le palpebre, e chiedere aiuto agli altri sensi per capire qualcosa di più del frammento di mondo in cui ci troviamo immersi.
Perché l’equazione “vedere uguale sapere” non risponde più alle leggi della matematica.
È necessario sentire.
Percepire.
Captare le vibrazioni di quel frammento di mondo, sintonizzare l’intero corpo sulle sue frequenze.
E magari rivolgere lo sguardo altrove, alla periferia dell’emozione, ai margini del fuori campo.
Come diceva Jimy in Nirvana, la verità - ammesso che ne esista ancora una - “non sopporta di essere guardata in faccia”.
Nel circuito di proliferazione cancerogena di immagini e parole che è il nostro Reale - prodotto della fusione tra la realtà concreta del mondo e l’immaginario - noi, natural born cyborgs, ci dobbiamo ribellare alla schiavitù dell’interpretazione televisiva sul mondo.
Dobbiamo di nuovo connettere l’occhio al cervello, le parole ad un senso.
E metterci in gioco.
Scrivere. “Scrivere su carta che brucia”, come diceva Pasolini.
Raccontarci, raccontare le nostre paure, i pensieri, la rabbia, l’indignazione.
L’orrore.
L’amore. Il dolore.
Il desiderio.
Perchè la fragile magia della sensibilità umana non vada perduta.
Luccichii, barlumi, scintillii: frammenti di senso che brillano come riflessi di un raggio di sole su di uno specchio andato in frantumi. Giochi di luce appena intravisti che attirano lo sguardo, attimi che svaniscono in un batter di ciglia, senza che l’occhio li sappia pienamente afferrare.
…Film, libri, canzoni…
Forse sono queste le piccole emozioni da cui poter partire per cercare un senso, per poter pensare al nostro abitare nel mondo?
Ecco allora quale potrebbe essere il primo passo della nostra ribellione: disegnare sguardi capaci di traiettorie impreviste e imprevedibili, voli assoluti in universi immaginari, librandoci nello spazio scuro come farfalle meccaniche dalle ali scintillanti.

Nessun commento: