mercoledì 5 dicembre 2007

GABBIE DI STRATEGIE

Scie di pulviscolo stellare galleggiano nell’aria.
Traiettorie che si sfiorano e si incrociano, voli arditi in un cielo appena stracciato da incerti fendenti di luce. Luce timida, tenue. Luce di una notte rischiarata da una luna a metà circondata di stelle.
Forse la penombra permette di cogliere l’essenza delle cose.
Troppa luce può accecare.
Troppa luce può uccidere.
Quando il sole sorge, intenso, lucciole e falene si spengono.
Anche le farfalle meccaniche volano più lievi e sicure nella penombra della notte stellata, in quella stessa luce che gli amanti scelgono, per fare l’amore. Quando gli occhi non bastano per guardarsi, e servono le mani per marchiarsi, le labbra per assaporarsi, i polpastrelli per mangiarsi. E a pelle, per innamorarsi. Pelle semplice, nuda.
“Forse sei un congegno che si spegne da sé”, urlavano gli Afterhours in Pelle.
Perché la pelle è il touch screen della nostra umanità, la barriera osmotica che ci mette in relazione con il mondo, e con gli altri. Contatto e confronto sono le ricette per farci sentire vivi, corpo, carne, anima.
È così che costruiamo la nostra identità.
Ma il corpo, come lo sguardo, non funziona in un’unica direzione.
L’occhio guarda, il corpo tocca. Ma non solo: l’occhio può essere guardato, il corpo può essere toccato, in un processo di continua e reciproca scoperta e svelamento, vero e proprio fondamento della percezione di se stessi nel mondo.
E se anche le immagini intrappolate dentro gli schermi avessero occhi per guardarci e per entrare in relazione con il nostro sguardo?
Come in Dejà vu, film ambientato nella New Orleans del post uragano Katrina: cortocircuito di passati e futuri impossibili. Le immagini ci guardano. Le immagini ci parlano, cercano un dialogo. Non sono soltanto passato, pellicola impressionata e immutabile. Formano un mondo parallelo, una realtà incomprensibile ad un semplice sguardo. Dimensioni destinate a non incontrarsi mai, frammenti di vite possibili che imprevedibilmente collassano e si intrecciano, risucchiate in un buco nero che annulla le distanze e annienta la linearità del tempo. Tanto che un corpo può venire trasportato nel passato, e cambiare il corso della storia, e morire, mentre il suo doppio rimane intrappolato, ma ancora vivo, nello stesso passato, senza poter forse mai conoscere ciò che, nel futuro, ha già fatto. Ma forse con la possibilità di incontrare, nel suo cammino, segnali provenienti dal futuro: déjà vu?
Ma il cinema - quando porta sullo schermo le nostre paure sotterranee, le angosce più perturbanti, gli struggenti interrogativi sull’identità - postula comunque quella distanza salvifica che permette il dialogo, il confronto, il contatto.
Cosa succede, invece, quando le immagini che dovrebbero guardarci e permetterci di confrontarci annullano la distanza e diventano parte di noi, monitor interiori su cui scorrono immagini così vuote e veloci da anestetizzare ogni senso critico?
È quello che in generale tenta di fare il sistema mass-mediatico allineato: imporci una visione non solo del mondo, ma anche e soprattutto di noi stessi. Perché alla fine, a forza di vederci rappresentati in un certo modo, abbiamo la tendenza a credere a ciò che vediamo. Le domande sono inutili, scomode, faticose. Costringono a pensare.
Come abbiamo potuto concedere tutto questo potere di condizionamento e definizione dell’identità al sistema culturale commerciale del nostro maledetto occidente?
Chiudiamo gli occhi.
Difendiamoci dall’azzeramento di senso delle immagini.
E rivolgiamo lo sguardo all’interno, verso noi stessi. E verso i margini, le rovine del mondo.
L'11 settembre, la strage in Ossezia, l'orrore di Abu Ghraib, le tragedie dimenticate forse qualcosa ci possono insegnare.
Confrontiamoci.
Sentiamoci, tocchiamoci.
Picchiamoci.
Baciamoci.
Ma costruiamo un senso, nostro, profondo.
Educhiamo i nostri occhi al confronto costruttivo, senza scuse.
Per capire il mondo in cui abitiamo, le sue dinamiche perverse, gli ingranaggi che ci vorrebbero stritolare.
Per costruire nuove identità, ali di fuoco con cui tagliare il cielo e illuminare dolcemente la notte.

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