giovedì 6 dicembre 2007

L'ABISSO DELLA VERGOGNA. DA ABU GHRAIB A "REDACTED"

È la primavera del 2004 quando scoppia lo scandalo di Abu Ghraib.
Fotografie sgranate, in bassa definizione, scattate nel carcere iracheno dai marines americani.
Un prigioniero incappucciato, le braccia collegate a cavi elettrici. Corpi ammassati uno sull’altro, nell’imitazione di un’orgia omosessuale. Una sorridente soldatessa americana, con una sigaretta tra le labbra, mima una fucilata alle zone intime di carcerati nudi. Cani che digrignano i denti, minacciosi. Elettrodi sui genitali, e sevizie fisiche di ogni tipo.
Istantanee.
Scatti che ritraggono la pratica della tortura: una tortura “democratica”.
Una vergogna allucinante, una macchia indelebile nella coscienza dell’America e dell’occidente.
La caccia alle fantomatiche armi di distruzione di massa tra le sabbie dell’Iraq si rivela per quello che è: una vendetta premeditata.


Cosa testimoniano le foto dell’orrore? Perché vengono scattate e vendute, immesse nel circuito della diffusione mass-mediale?
La prima guerra del Golfo, con la sua invisibilità, con gli “effetti collaterali” nascosti nella luce verde delle esplosioni lontane, è distante. Così come lo sono gli infiniti campi di concentramento che hanno segnato come cicatrici tutto il Novecento: i lager nazisti e quelli indonesiani, gli stadi cileni e le prigioni segrete sulle isole del Pacifico. Tragedie senza immagini, che nella loro irrappresentabilità cercano il beneficio dell’oblio.
Le fotografie di Abu Ghraib, invece, sembrano rispondere all’esigenza opposta: nel momento in cui è il nemico a farsi invisibile, a confondersi, a scivolare subdolamente dentro la quotidianità, scatta il bisogno di renderlo visibile, di dargli un volto. L’invisibilità è il regno dell’inquietudine, del dubbio, del pericolo. Una fotografia - e la fiducia che quell’immagine sia il ritratto fedele di una realtà evidente, limpida - è espressione del potere di controllo, di una situazione in cui è ancora e sempre l’altro a dover subire. La sua ribellione viene strozzata.



La paura e la sensazione di fragilità dell’America viene mascherata con l’esibizione dei muscoli. Come se nella sottomissione e nella strumentalizzazione dell’altro, che avrebbe osato ribellarsi e attaccare il cuore simbolico della civiltà, potesse ancora trovare conferma la volontà di dominio. Tenere al guinzaglio il nemico e umiliarlo, mostrando al mondo intero la sua inevitabile sottomissione: cosa c’è di più crudele, arrogante, perverso? Le fotografie di Abu Ghraib, pur nella loro sconcertante verità fenomenologica, sono la cartina al tornasole dell’illusione di avere ancora tra le mani il controllo totale sulla realtà. L’illusione che, per quanto subdolo e cattivo, il nemico alla fine riceva il trattamento che merita. Ed è attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica - vero e proprio “occhio che uccide”, come sottolinea Giovanni Fiorentino - che si può tentare di ricostruire la sua presunta identità, di riaffermare il suo ruolo di sottomissione.
Lo stesso desiderio di recuperare il potere e il controllo emerge in uno dei film più importanti di questi anni, Redacted di Brian De Palma, film ancora troppo poco distribuito.
Qual è il confine tra cronaca e informazione?
Quando un punto di vista può diventare un’azione?
Sabbia. Sole. Sudore che imperla la fronte. Tensione. Vene come fili elettrici.
Vivere col terrore di essere attaccati da un kamikaze, pronto a farsi esplodere per uccidere.
Un errore di valutazione, e un’esplosione potrebbe cancellare dalla faccia della terra i soldati inviati nel deserto di Samarra.
Chi è il nemico? Come fare a riconoscerlo?
È come se indossasse un vestito cangiante, che lo rende sfuggente, ai limiti dell’invisibile. E proprio per questo agghiacciante, indecifrabile. Il mistero fa paura.
Così anche in quell’inferno di nervose attese e alterazioni cardiache non può mancare la tecnologia: telefoni, macchine fotografiche, e soprattutto una videocamera.
Catturare un’esperienza, documentarla attraverso l’occhio di vetro.
Ma soprattutto affidare a quello sguardo artificiale la possibilità di catturare l’invisibile, di dare un volto al terrore, di tracciare un identikit del nemico. Cercare una rassicurazione, un modo di sopravvivere, senza farsi travolgere dalla paura.
Ma il nemico non c’è, così come non ci sono armi di distruzione di massa, nascoste sotto le gialle sabbie dell’Iraq. Che senso ha una guerra contro un nemico inesistente? È come combattere contro un fantasma, una lotta estenuante e lunga, da brividi, ma senza speranze.
Una squadra di marines decide così di inventarsi letteralmente dal nulla un nemico, e sceglie come bersaglio una normale e pacifica famiglia di civili. Omicidi di massa, sterminio di un’intera famiglia, e violento stupro di Farah, ragazza quindicenne che poi viene torturata ed uccisa. La videocamera riprende la violenza, ma prova ad uscire di scena quando ormai è troppo tardi, e le sue lenti sono già macchiate di vergine sangue indelebile.
Cortocircuito. Nella confusione dei linguaggi utilizzati - giornalismo d’assalto, velleità artistiche, informazione televisiva, webcam e filmati amatoriali in rete - Redacted diventa pensiero cinematografico. E nonostante la strana guerra sia ancora in corso, attraverso lo strumento-cinema De Palma riesce a costruire quella distanza critica che permette alle immagini di reagire, l’una accanto all’altra, in una narrazione che si trasforma in un trampolino di lancio per una riflessione profonda, dolorosa, spietata sull’abisso delle atrocità umane.
Quello che non si vede, di solito si dimentica.
Ma sarà difficile cancellare dalla memoria immagini come quelle di Abu Ghraib e di Samarra.
Perché queste sono immagini cariche di senso.
Posare gli occhi su di loro è un dolore, come riaprire una ferita lancinante: ma conservarle nella memoria e riempirle di senso è un gesto necessario.
Averne orrore.
Rabbrividire.
E sanguinare dentro.
Senza permettere che il buio di una notte totale e devastante neutralizzi e cancelli anche il colore del nostro sangue rosso vivo.




1 commento:

chiar@ ha detto...

Emozioni che si fanno carne, sangue, parole da mangiare, divorare, sviscerare. Parole che stanno sullo stomaco, come macigni di polvere da sparo impossibili da digerire.
E uno sgurado che sente, che percepisce,che comunica non solo con gli occhi ma con tutti i sensi che infiammano con tutta la forza di cui sei capace.
Le tue ali, piccola dolce farfalla meccanica, sono parole che non hanno paura di sporcarsi, perchè solo nel buio si può capire la bellezza della luce.

Un battito d'ali per te,
mariposa