venerdì 28 dicembre 2007

SULLA RIVA, "DA QUESTA PARTE DEL MARE"



Soffia un vento freddo, potente e dolce.
Chiudo gli occhi.
Immagino.
E sento. Sento il mare. La sua voce, il suo profumo.
Mare. Acqua, fin oltre la curva dell’orizzonte. Una distesa che sembra infinita, superficie increspata e scintillante. Le onde danzano lievi e senza tempo, tra bianchi crinali spumeggianti e frammenti d’oro, riflessi di sole annegati nel blu.
E sulla battigia, accarezzati dalla marea, due delicati piedi femminili affondano nella sabbia umida, lentamente.
Lei è lì, avvolta nel suo vestito di semitrasparenze azzurre. Gli occhi profondi, lo sguardo intenso. Lacrime gonfie di domande, che scivolano dentro. Sguardo denso, meraviglioso.
Uno sguardo che respira emozioni – e ogni respiro è una fitta al cuore – inspirazione, espirazione – e ogni sguardo è nello stesso magico istante un accogliere e un donare – quando quello sguardo incrocia un altro sguardo – che non è semplicemente un vedersi – perché vedere con gli occhi non basta – ma un sentirsi, riconoscersi – comprendersi – e paradossalmente toccarsi – toccarsi con lo sguardo – toccarsi dentro, dove l’anima è più invisibile – dove il mare è più profondo – sguardi che si nutrono di sfumature, di colori e di emozioni…
Lei si gira. E, semplicemente, sorride…
E anche il mare – rapito da quella meraviglia – viene come percorso da un brivido, uno scintillio di polvere magica. Un incanto.

…Le dita sulla chitarra. Pochi accordi, semplici. Melodie lievi e dolci, profumate di sale, di terra, di fango e aria, di brace e mare…
Quando la voce intensa di Gianmaria Testa inizia a librarsi profonda, il mondo sembra fermarsi per un istante.
Perché in quelle parole, nel timbro di quella voce, nelle note che escono da quella chitarra, si nasconde in un sussurro un grido di lancinante poesia.
“Da questa parte del mare” è il titolo del suo ultimo album.
Undici canzoni che non sono semplici canzoni.
Sono storie, racconti, frammenti lirici che si intrecciano, uniti nel respiro di un’unica narrazione.
Sulla riva, con gli occhi a volare sulle onde come gabbiani, i viaggiatori cercano all’orizzonte la luce di una speranza, da raggiungere attraversando il mare.
Mare come confine, limite oltre cui spingersi, lasciando alle spalle paure e dolori, miserie e orrori. Mare come promessa, carezza capace di cullare e custodire sogni e desideri, come una ninna nanna d’amore. Mare crudele e impietoso, ventre gravido di insidie e mostri notturni. Mare come metafora dell’anima, avvolto nel mistero, capace di profumi e dolcezze da favola, così come di orrorifiche violenze inenarrabili.
Seminatori di grano arrivati da paesi lontani, naufraghi e ladri di mare, emigranti con una lingua da disimparare. E il pianto delle madri, l’odore acre delle stive. L’acqua scura nella notte senza stelle, camaleontico travestimento clandestino.
Gianmaria Testa racconta il cuore degli emigranti, le loro paure, le lacrime, gli abbandoni.
Ma lo fa con tenerezza, con la delicatezza della poesia.
Senza urlare, senza slogan né frasi preconfezionate. Nemmeno quando ci butta dentro rabbia e indignazione, come in “Tela di ragno”.
Non c’è però soltanto spazio per i colori più scuri, nella poetica del cantautore ferroviere. Ci sono sorrisi, piccoli gesti d’amore. C’è il desiderio di raccontare e raccontarsi. C’è vita che nasce, un fiore che sboccia d’inverno nel mercato di Porta Palazzo. C’è passione, e sensualità. C’è la dolcezza potente di un amore impossibile.
Da questa parte del mare, sulla riva, un nugolo di emozioni e di sogni scintilla di luce, come un falò sulla sabbia.
Dall’altra parte, su un’altra spiaggia bagnata dallo stesso mare, nuovi passi fremono nell’attesa di essere compiuti.
La musica di Gianmaria Testa è un viaggio. Un viaggio del cuore, dentro il mondo pennellato da strumenti sempre delicati, da una voce vibrante, da un’intelligenza penetrante e sensibile.Colonna sonora ideale per vite che cercano intensità e melodia, dolcezza e profondità.


mercoledì 26 dicembre 2007

VIVERE SU CARTA CHE BRUCIA



Raccontarsi.
Scrivere, e bruciarsi le mani.
Le fiamme divorano la carta, falene di fuoco che si librano nell’aria.
Parole.
Parole come stelle, raggi di luce scintillante a fendere ed offendere la nebbia.
Parole che sussurrano e come grida infrangono il gelido silenzio che intossica le vene.

…A volte prendi così tante botte

che anche la penna diventa
un macigno impossibile da sollevare.
Sparring partner della vita, destinato al KO.

…A volte grumi di veleno scorrono nel tuo sangue,

gli occhi sputano lacrime,
le iridi si sfarinano…

…A volte il freddo è così pungente

che le tue ali si ghiacciano,
movimenti cristallizzati che ti fanno precipitare al suolo,
in un violento e fragoroso frantumarsi di sogni…

…Altre volte, invece, sembra che…
…che le parole non bastino….
Come quando senti l’infinito muoversi dentro di te, e tutto il resto sembra sparire…
…E anche se fuori il mondo continua a fremere e urlare e sputare, tu ormai sei rapito,
e non c’è niente da fare,
potrebbero anche spararti con un cannone,

ma tu a quella magia non rinunceresti mai.
Un po’ come succede a Mormy in Castelli di rabbia:

emozioni – immagini così intense da togliere il fiato – ma anche suoni, musiche, voci – di una bellezza talmente profonda e tagliente che…

Crepita e brucia, la magia del racconto.


Silenzi.
Silenzi che fanno paura.
E frastuono assordante di parole stridenti, acrobazie inutili nel vuoto.

Parole, parole. Migliaia di costellazioni di parole: ma già spente.

E allora qual è una soluzione per difendersi da un mondo del genere, se non quella di affidarsi alla salvifica poesia del racconto?
Perché raccontare significa far brillare le stelle, accendere dei fuochi nella notte, camminare insieme, mano nella mano.
E mettersi in gioco.
Usare le parole per comunicare, nel senso letterale: condividere.
Raccontare – e raccontarsi, mettendo in gioco se stessi, le proprie paure, i desideri, le emozioni più nascoste – è un gesto d’amore?
Sì, io penso di sì.
Ci credo, ci voglio credere.
Altrimenti nessuna parola avrebbe più senso. Nemmeno queste.

Voglio sporcarmi le mani di lettere in bianco e nero.
Voglio tuffarmi in un cimitero di libri abbandonati e, tra la polvere e i labirinti, scegliere e farmi scegliere da un libro soltanto.
Voglio immergermi in un mondo inventato, e reale proprio perché fantastico, suggerito, evocato, immaginato.
Voglio inverosimili tempi futuri da dipingere.
Voglio spedire lettere mai scritte.
Voglio avere la forza di sognare ogni giorno.
Voglio la dolcezza di una ragazza con cui sfogliare le pagine di cui siamo fatti.

Voglio scrivere, perché forse Pirandello aveva torto. Scrivere è vivere!

domenica 9 dicembre 2007

"NELLA VALLE DI ELAH", NELLA NOTTE DELL'AMERICA

Il sole dell’Iraq brucia, acceca, scioglie i circuiti di senso, come se fossero plastica.
Anche il telefono di un marine impegnato nell’operazione “Tempesta nel Deserto” rischia di fondersi, immerso in quel calore che fa colare i pensieri.
Ma quel telefono diventa l’unico filo conduttore con il passato, quando il soldato misteriosamente scompare.
È suo padre, reduce dal Vietnam, a mettersi sulle tracce del marine, e a consegnare il telefono ad un hacker, perché ne estragga il contenuto.
Figura marginale ma carica di significato, quella dell’hacker: il pirata informatico come soggetto eversivo cerca di non farsi travolgere dall’anestetizzante flusso di dati che il sistema mass mediatico ci scarica addosso, per cercare invece di portare a galla le menzogne, il non detto, ciò che viene tenuto nascosto. Una metafora del cinema?
Dal telefono vengono estratti alcuni frammenti di video. La definizione delle immagini è molto bassa, la visione è disturbata da pixel che ne bloccano la fluidità. Ma ciò che si intuisce da quegli scattanti fotogrammi fa accapponare la pelle.
Brividi.
Non c’è scampo, non c’è salvezza, di fronte all’orrore.
Il virus della follia che distrugge la razionalità e trasforma in criminali annebbia le menti, macchia di sangue l’innocenza perduta.
E anche Mike, il giovane e tranquillo soldato, diventa un mostro in stile boia di Abu Ghraib.
In uno dei filmati frammentati estratti dal cellulare, Mike sta torturando un prigioniero, infilando la mano nelle sue ferite. E, di fronte all’inutile dolore che infligge, ride. Recita. Come se fosse su un palcoscenico. Come se, inscenando una rappresentazione, gli effetti non potessero essere poi così reali, carnali, terribili. La finzione scivola nella realtà, in una contaminazione reciproca che fa perdere il senso della distanza.
Altra scena, altre immagini rubate al deserto. Mike spinge sull’acceleratore, invece di frenare di fronte ad un ostacolo improvviso. Fino all’impatto. Cos’era? Un animale? Oppure un bambino che inseguiva un pallone?
Le immagini della “guerra” contro un nemico invisibile girate dal vivo risultano corrotte. Come i ricordi. Ricordi che diventano sterili e vuoti, nei giovani soldati. Ricordi che, invece di far germogliare una nuova coscienza critica, trasformano i marines in marionette senza spessore, piatte, disumanizzate: follia criminale senza nessun senso.
Così, al loro ritorno in patria, la violenza che hanno vissuto non si placa, e miete nuove vittime.
Volevano esportare la democrazia attraverso la guerra, e non solo hanno fallito, ma hanno addirittura riportato la guerra dentro i propri confini.
Perché non ci sono più linee di confine, nella guerra invisibile.
Come una nube tossica che si espande nell’aria, l’orrore di una violenza automatica e priva di riflessioni ontologiche ammorba anche quelli che tradizionalmente si ritengono i “buoni”, quelli che combattono in nome di grandi ideali.
Nella valle di Elah è un film che, oscillando tra detective story e presa di coscienza politica, scava nell’anima di un’America costretta a fare i conti con le conseguenze dei propri irresponsabili gesti. Una narrazione lucida e profonda. Un viaggio interiore compiuto attraverso gli occhi del protagonista, un rugoso Tommy Lee Jones, che vede crollare inesorabilmente i valori in cui credeva, come fragili castelli costruiti in riva all’oceano, destinati ad essere spazzati via dalla furia della tempesta arrivata dal deserto.
Cosa gli resta da fare, allora, se non mettere da parte l’orgoglio, e umilmente issare la bandiera americana al contrario?
Perché quella bandiera finale che sventola rovesciata altro non è, nel linguaggio militare, che una richiesta di aiuto. Medicine, provviste alimentari e indumenti in questo caso non fanno parte dell’aiuto umanitario richiesto: servono piuttosto storie, significati e valori nuovi, per aiutare un mondo intero a ritrovare in se stesso un senso profondo e costruttivo.
Un compito per noi, piccole farfalle meccaniche.
Ognuno può, nel suo piccolo, dipingere nuovi cieli in cui poter volare.
Cieli che finalmente profumino d’amore.



giovedì 6 dicembre 2007

L'ABISSO DELLA VERGOGNA. DA ABU GHRAIB A "REDACTED"

È la primavera del 2004 quando scoppia lo scandalo di Abu Ghraib.
Fotografie sgranate, in bassa definizione, scattate nel carcere iracheno dai marines americani.
Un prigioniero incappucciato, le braccia collegate a cavi elettrici. Corpi ammassati uno sull’altro, nell’imitazione di un’orgia omosessuale. Una sorridente soldatessa americana, con una sigaretta tra le labbra, mima una fucilata alle zone intime di carcerati nudi. Cani che digrignano i denti, minacciosi. Elettrodi sui genitali, e sevizie fisiche di ogni tipo.
Istantanee.
Scatti che ritraggono la pratica della tortura: una tortura “democratica”.
Una vergogna allucinante, una macchia indelebile nella coscienza dell’America e dell’occidente.
La caccia alle fantomatiche armi di distruzione di massa tra le sabbie dell’Iraq si rivela per quello che è: una vendetta premeditata.


Cosa testimoniano le foto dell’orrore? Perché vengono scattate e vendute, immesse nel circuito della diffusione mass-mediale?
La prima guerra del Golfo, con la sua invisibilità, con gli “effetti collaterali” nascosti nella luce verde delle esplosioni lontane, è distante. Così come lo sono gli infiniti campi di concentramento che hanno segnato come cicatrici tutto il Novecento: i lager nazisti e quelli indonesiani, gli stadi cileni e le prigioni segrete sulle isole del Pacifico. Tragedie senza immagini, che nella loro irrappresentabilità cercano il beneficio dell’oblio.
Le fotografie di Abu Ghraib, invece, sembrano rispondere all’esigenza opposta: nel momento in cui è il nemico a farsi invisibile, a confondersi, a scivolare subdolamente dentro la quotidianità, scatta il bisogno di renderlo visibile, di dargli un volto. L’invisibilità è il regno dell’inquietudine, del dubbio, del pericolo. Una fotografia - e la fiducia che quell’immagine sia il ritratto fedele di una realtà evidente, limpida - è espressione del potere di controllo, di una situazione in cui è ancora e sempre l’altro a dover subire. La sua ribellione viene strozzata.



La paura e la sensazione di fragilità dell’America viene mascherata con l’esibizione dei muscoli. Come se nella sottomissione e nella strumentalizzazione dell’altro, che avrebbe osato ribellarsi e attaccare il cuore simbolico della civiltà, potesse ancora trovare conferma la volontà di dominio. Tenere al guinzaglio il nemico e umiliarlo, mostrando al mondo intero la sua inevitabile sottomissione: cosa c’è di più crudele, arrogante, perverso? Le fotografie di Abu Ghraib, pur nella loro sconcertante verità fenomenologica, sono la cartina al tornasole dell’illusione di avere ancora tra le mani il controllo totale sulla realtà. L’illusione che, per quanto subdolo e cattivo, il nemico alla fine riceva il trattamento che merita. Ed è attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica - vero e proprio “occhio che uccide”, come sottolinea Giovanni Fiorentino - che si può tentare di ricostruire la sua presunta identità, di riaffermare il suo ruolo di sottomissione.
Lo stesso desiderio di recuperare il potere e il controllo emerge in uno dei film più importanti di questi anni, Redacted di Brian De Palma, film ancora troppo poco distribuito.
Qual è il confine tra cronaca e informazione?
Quando un punto di vista può diventare un’azione?
Sabbia. Sole. Sudore che imperla la fronte. Tensione. Vene come fili elettrici.
Vivere col terrore di essere attaccati da un kamikaze, pronto a farsi esplodere per uccidere.
Un errore di valutazione, e un’esplosione potrebbe cancellare dalla faccia della terra i soldati inviati nel deserto di Samarra.
Chi è il nemico? Come fare a riconoscerlo?
È come se indossasse un vestito cangiante, che lo rende sfuggente, ai limiti dell’invisibile. E proprio per questo agghiacciante, indecifrabile. Il mistero fa paura.
Così anche in quell’inferno di nervose attese e alterazioni cardiache non può mancare la tecnologia: telefoni, macchine fotografiche, e soprattutto una videocamera.
Catturare un’esperienza, documentarla attraverso l’occhio di vetro.
Ma soprattutto affidare a quello sguardo artificiale la possibilità di catturare l’invisibile, di dare un volto al terrore, di tracciare un identikit del nemico. Cercare una rassicurazione, un modo di sopravvivere, senza farsi travolgere dalla paura.
Ma il nemico non c’è, così come non ci sono armi di distruzione di massa, nascoste sotto le gialle sabbie dell’Iraq. Che senso ha una guerra contro un nemico inesistente? È come combattere contro un fantasma, una lotta estenuante e lunga, da brividi, ma senza speranze.
Una squadra di marines decide così di inventarsi letteralmente dal nulla un nemico, e sceglie come bersaglio una normale e pacifica famiglia di civili. Omicidi di massa, sterminio di un’intera famiglia, e violento stupro di Farah, ragazza quindicenne che poi viene torturata ed uccisa. La videocamera riprende la violenza, ma prova ad uscire di scena quando ormai è troppo tardi, e le sue lenti sono già macchiate di vergine sangue indelebile.
Cortocircuito. Nella confusione dei linguaggi utilizzati - giornalismo d’assalto, velleità artistiche, informazione televisiva, webcam e filmati amatoriali in rete - Redacted diventa pensiero cinematografico. E nonostante la strana guerra sia ancora in corso, attraverso lo strumento-cinema De Palma riesce a costruire quella distanza critica che permette alle immagini di reagire, l’una accanto all’altra, in una narrazione che si trasforma in un trampolino di lancio per una riflessione profonda, dolorosa, spietata sull’abisso delle atrocità umane.
Quello che non si vede, di solito si dimentica.
Ma sarà difficile cancellare dalla memoria immagini come quelle di Abu Ghraib e di Samarra.
Perché queste sono immagini cariche di senso.
Posare gli occhi su di loro è un dolore, come riaprire una ferita lancinante: ma conservarle nella memoria e riempirle di senso è un gesto necessario.
Averne orrore.
Rabbrividire.
E sanguinare dentro.
Senza permettere che il buio di una notte totale e devastante neutralizzi e cancelli anche il colore del nostro sangue rosso vivo.




GOCCE CHE COLANO DALLO SCHERMO

Un’immagine non è mai innocente: nasconde sempre, tra le sue pieghe, un segreto.
Un segreto terribile.
Inquietante.
Come un alone di mistero.
Come una traccia di sangue.
Gli aerei che esplodono contro le Twin Towers sono le perfette icone della finzione che colonizza il reale.
È l’orrore della morte che si fa spettacolo, macabro spettacolo del dolore.
La distruzione della civiltà, dipinta tante volte nei più catastrofici film hollywoodiani, abbandona la sua dimensione virtuale, immaginaria, e si letteralizza nel mondo. La minaccia viene dal cielo, spazio per eccellenza dell’altrove. Proprio come gli alieni provenienti da lontane galassie - creature mostruose con un unico scopo: distruggerci - i terroristi piombano a frantumare le Torri Gemelle, cuore simbolico dell’America e dei suoi valori. Dai muri sgretolati colano il sangue e la paura.
La partita si combatte sulla scacchiera della morte, “morte simbolica e sacrificale” come la definisce Jean Baudrillard.
Il modo di “vivere la morte” è l’arma attraverso cui avviene il confronto - o, meglio, lo scontro - con l’altro. Ma chi è questo “altro”, oggi, per noi, per la nostra società occidentale? Non è l’alieno assoluto, lo sconosciuto radicale. Piuttosto, come nella concezione di Baudrillard, è l’altro simile a noi, quello che abbiamo privato della sua specifica identità. È l’altro inglobato e integrato nel sistema, reso sempre più uniforme e funzionale. Svuotato della sua singolare specificità, l’altro diventa il “medesimo”, parte dell’ingranaggio, una specie di specchio in cui l’Occidente cerca la conferma della propria forza dominatrice sul resto del pianeta.
Ma da dove nasce questa presunta forza?
È attraverso la costruzione di un sistema mass-mediatico pervasivo ed invasivo che la società post-moderna fa brillare il proprio potere. Un potere - anche politico - che consiste nell’imporre una visione del mondo.
Il senso di un’identità si costruisce grazie al confronto degli sguardi, nella consapevolezza di non essere invisibili: percepire ed essere percepiti dagli altri è l’atto fondante di ogni possibile identità. E se le visioni del mondo occidentale si propagano in ogni angolo della terra attraverso la diffusione capillare dei prodotti dell’industria culturale - dai programmi televisivi ai successi cinematografici, dai siti Internet ai giornali -, allora questo rende possibile una percezione di sé attraverso dei simulacri: l’altro fonda la propria identità anche sulle immagini di se stesso che vede riflesse nei mass-media.
Immagini che scorrono veloci, evanescenti, stereotipate.
Immagini che ne disegnano il ruolo, che ne dipingono le possibilità espressive.
Ma il sistema mass-mediale non ha, per fortuna, né la perfezione né la forza devastante della Matrice di Matrix. Così tra le sue crepe si possono insinuare i virus della rivolta, i germi della ribellione. Proprio come ci insegnano i doppi umani artificiali, le creature macchiniche che la fantascienza e il cyber-cinema hanno eletto a protagonisti del mondo post-umano. Androidi e robot che si ribellano al creatore, incapaci di accettare il loro piccolo ruolo di vittime sacrificali. Nelle loro rivolte chiedono un ruolo da protagonisti sul palcoscenico della vita. Pretendono di potersi autodeterminare, ribellandosi al ruolo che per loro è stato disegnato da altri.
Non è la stessa logica dei terroristi che si fanno esplodere in volo, l’11 settembre, schiantandosi contro i grattacieli che dominano lo sky-line di New York? La loro ribellione è contro quel sistema mass-mediatico che pretende di dipingere i loro ruoli, le loro identità, riducendole a parte secondaria del sistema. Il terrorismo contemporaneo, allora, può essere considerato il frutto dell’imposizione di un’unica visione sul mondo, quella propugnata dal sistema dei media?
I terroristi giocano pericolosamente con la morte. E scatenano la paura. Una paura che scivola dallo schermo, filtra nella vita quotidiana, e si infila sotto la pelle. Come una bestia assassina. Come una malattia.
Codice rosso, stato di allerta costante.
La paura diventa parte integrante di quello stesso sistema vittima dell’attacco terroristico, si trasforma in motore emozionale ed economico. È la paura che i ruoli si ribaltino, la paura di diventare schiavi del dominio dell’altro, di precipitare nell’incubo. La spirale di violenza può ribaltare l’ordine prestabilito di questo mondo, chiudersi con il trionfo delle creature ribelli?
Dalla paura scaturisce, ancora, la violenza. Violenza cieca, feroce, criminalmente lucida.
Violenza che si manifesta nel tentativo di opporsi alla perdita del controllo, nel desiderio di affermare, ancora una volta, il proprio potere. E di imporlo, mostrando al mondo intero la propria immutata capacità di dominio.
Ma sicuramente nemmeno queste nuove immagini, figlie della violenza, sono innocenti. Anzi. Sono immagini cariche di raccapricciante terrore. Un orrore, assoluto.

mercoledì 5 dicembre 2007

GABBIE DI STRATEGIE

Scie di pulviscolo stellare galleggiano nell’aria.
Traiettorie che si sfiorano e si incrociano, voli arditi in un cielo appena stracciato da incerti fendenti di luce. Luce timida, tenue. Luce di una notte rischiarata da una luna a metà circondata di stelle.
Forse la penombra permette di cogliere l’essenza delle cose.
Troppa luce può accecare.
Troppa luce può uccidere.
Quando il sole sorge, intenso, lucciole e falene si spengono.
Anche le farfalle meccaniche volano più lievi e sicure nella penombra della notte stellata, in quella stessa luce che gli amanti scelgono, per fare l’amore. Quando gli occhi non bastano per guardarsi, e servono le mani per marchiarsi, le labbra per assaporarsi, i polpastrelli per mangiarsi. E a pelle, per innamorarsi. Pelle semplice, nuda.
“Forse sei un congegno che si spegne da sé”, urlavano gli Afterhours in Pelle.
Perché la pelle è il touch screen della nostra umanità, la barriera osmotica che ci mette in relazione con il mondo, e con gli altri. Contatto e confronto sono le ricette per farci sentire vivi, corpo, carne, anima.
È così che costruiamo la nostra identità.
Ma il corpo, come lo sguardo, non funziona in un’unica direzione.
L’occhio guarda, il corpo tocca. Ma non solo: l’occhio può essere guardato, il corpo può essere toccato, in un processo di continua e reciproca scoperta e svelamento, vero e proprio fondamento della percezione di se stessi nel mondo.
E se anche le immagini intrappolate dentro gli schermi avessero occhi per guardarci e per entrare in relazione con il nostro sguardo?
Come in Dejà vu, film ambientato nella New Orleans del post uragano Katrina: cortocircuito di passati e futuri impossibili. Le immagini ci guardano. Le immagini ci parlano, cercano un dialogo. Non sono soltanto passato, pellicola impressionata e immutabile. Formano un mondo parallelo, una realtà incomprensibile ad un semplice sguardo. Dimensioni destinate a non incontrarsi mai, frammenti di vite possibili che imprevedibilmente collassano e si intrecciano, risucchiate in un buco nero che annulla le distanze e annienta la linearità del tempo. Tanto che un corpo può venire trasportato nel passato, e cambiare il corso della storia, e morire, mentre il suo doppio rimane intrappolato, ma ancora vivo, nello stesso passato, senza poter forse mai conoscere ciò che, nel futuro, ha già fatto. Ma forse con la possibilità di incontrare, nel suo cammino, segnali provenienti dal futuro: déjà vu?
Ma il cinema - quando porta sullo schermo le nostre paure sotterranee, le angosce più perturbanti, gli struggenti interrogativi sull’identità - postula comunque quella distanza salvifica che permette il dialogo, il confronto, il contatto.
Cosa succede, invece, quando le immagini che dovrebbero guardarci e permetterci di confrontarci annullano la distanza e diventano parte di noi, monitor interiori su cui scorrono immagini così vuote e veloci da anestetizzare ogni senso critico?
È quello che in generale tenta di fare il sistema mass-mediatico allineato: imporci una visione non solo del mondo, ma anche e soprattutto di noi stessi. Perché alla fine, a forza di vederci rappresentati in un certo modo, abbiamo la tendenza a credere a ciò che vediamo. Le domande sono inutili, scomode, faticose. Costringono a pensare.
Come abbiamo potuto concedere tutto questo potere di condizionamento e definizione dell’identità al sistema culturale commerciale del nostro maledetto occidente?
Chiudiamo gli occhi.
Difendiamoci dall’azzeramento di senso delle immagini.
E rivolgiamo lo sguardo all’interno, verso noi stessi. E verso i margini, le rovine del mondo.
L'11 settembre, la strage in Ossezia, l'orrore di Abu Ghraib, le tragedie dimenticate forse qualcosa ci possono insegnare.
Confrontiamoci.
Sentiamoci, tocchiamoci.
Picchiamoci.
Baciamoci.
Ma costruiamo un senso, nostro, profondo.
Educhiamo i nostri occhi al confronto costruttivo, senza scuse.
Per capire il mondo in cui abitiamo, le sue dinamiche perverse, gli ingranaggi che ci vorrebbero stritolare.
Per costruire nuove identità, ali di fuoco con cui tagliare il cielo e illuminare dolcemente la notte.

martedì 4 dicembre 2007

PICCOLE FARFALLE MECCANICHE

Blackout?
Tutto buio, all’improvviso.
Occhi spalancati nell’oscurità, nero di pece che cola sulle palpebre.
E spari.
Vicini. Fragorosi, assordanti.
Lacerazioni e ferite profonde. Istantanee di dolore, impresse nel buio. Il sangue scuro e denso come catrame.
Non siamo innocenti, nemmeno noi, che tentiamo di scampare al massacro.
Non siamo innocenti, se non proviamo a fermare il tiro al bersaglio, a riaccendere la luce, e a smascherare gli assassini.
La nostra colpa? Non avere occhi, orecchie e mani in grado di guidarci tra le nebbie che avvolgono il deserto del reale.
Immagini e parole. Immagini abbaglianti, travolgenti, vuote. Parole taglienti come lame, veloci come proiettili. Immagini di un passato mai esistito, di un futuro che forse non si realizzerà. Parole impazzite, caotiche. Immagini accelerate e dissolte di un mondo catturato in flow motion. Parole e immagini che non lasciano nessuno spazio all’immaginazione.
È come se queste immagini e queste parole - sparate dalle mitragliatrici massmediatiche - non avessero profondità, fossero impenetrabili ad uno sguardo che ne accarezza la superficie e scivola via, sulla loro patina lucida, per rimbalzare ancora, sulle immagini successive, senza sosta.
L’occhio e l’orecchio non sono trasparenti: non riescono più, da soli, a cogliere l’anima delle cose. O forse è quello che c’è fuori a non essere più trasparente, a non voler più essere interpretato. Frastagliati in mille schermi, il mondo e la vita esplodono in schegge accecanti, pericolosi frammenti di vetro. Come nel finale di Zabriskie Point di Antonioni: il monitor in frantumi, il senso disperso e fatto a pezzi.
È questa la nostra realtà?
Natural born cyborgs. Ecco cosa siamo.
Viviamo immersi in una modernità liquida, in una placenta di informazioni, in un liquido amniotico appiccicoso di video, voci, scritte. Siamo i bersagli continui di cartelloni pubblicitari, radio accese, servizi telegiornalistici. “Shoot, dont’t think”, recitava lo spot di una macchina fotografica: “Spara, non pensare”. A cosa servono oggi lo sguardo, il pensiero?
“Lo schermo televisivo è ormai il vero unico occhio dell’uomo. La televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione” (in Videodrome, di Cronenberg).
I telegiornali e il finto giornalismo stabiliscono le priorità. Un truculento fatto di sangue conquista l’attenzione di milioni di spettatori. La politica rimane un bambinesco gioco di reciproche accuse e frecciate. I tifosi violenti uccidono lo sport. E i reality show regalano emozioni imperdibili.
Cosa succede quando la televisione colonizza il Reale, facendo di tutto per impedire allo spettatore di trovare un senso nelle immagini, di creare un’interpretazione?
Cosa succede quando la realtà scivola dall’altra parte dello schermo televisivo, senza essere nemmeno confezionata come storia, ma spacciata per vita vera, spogliata di ogni dimensione metaforica, resa brutalmente fruibile alla vista?
Succede che viene eliminata la distanza dello sguardo, la distanza tra il soggetto e l’oggetto. Quello spazio - uno spazio magico, in cui può esserci il tutto e il niente, o semplicemente la vita - necessario per la costruzione di una relazione basata sullo scambio, sul contatto, sulla reciprocità.
L’immagine finisce per coincidere con il reale, senza più riuscire ad immaginarlo.
Come se le cose si fossero inghiottite gli specchi che le riflettono, fondendosi in una nuova dimensione, che è la dimensione della simulazione, della fusione tra la realtà e la sua immagine, ormai coincidenti e sovrapponibili.
Cosa possiamo fare, per difenderci e sfuggire all’inferno del vedere, se non chiudere gli occhi? Abbassare le palpebre, e chiedere aiuto agli altri sensi per capire qualcosa di più del frammento di mondo in cui ci troviamo immersi.
Perché l’equazione “vedere uguale sapere” non risponde più alle leggi della matematica.
È necessario sentire.
Percepire.
Captare le vibrazioni di quel frammento di mondo, sintonizzare l’intero corpo sulle sue frequenze.
E magari rivolgere lo sguardo altrove, alla periferia dell’emozione, ai margini del fuori campo.
Come diceva Jimy in Nirvana, la verità - ammesso che ne esista ancora una - “non sopporta di essere guardata in faccia”.
Nel circuito di proliferazione cancerogena di immagini e parole che è il nostro Reale - prodotto della fusione tra la realtà concreta del mondo e l’immaginario - noi, natural born cyborgs, ci dobbiamo ribellare alla schiavitù dell’interpretazione televisiva sul mondo.
Dobbiamo di nuovo connettere l’occhio al cervello, le parole ad un senso.
E metterci in gioco.
Scrivere. “Scrivere su carta che brucia”, come diceva Pasolini.
Raccontarci, raccontare le nostre paure, i pensieri, la rabbia, l’indignazione.
L’orrore.
L’amore. Il dolore.
Il desiderio.
Perchè la fragile magia della sensibilità umana non vada perduta.
Luccichii, barlumi, scintillii: frammenti di senso che brillano come riflessi di un raggio di sole su di uno specchio andato in frantumi. Giochi di luce appena intravisti che attirano lo sguardo, attimi che svaniscono in un batter di ciglia, senza che l’occhio li sappia pienamente afferrare.
…Film, libri, canzoni…
Forse sono queste le piccole emozioni da cui poter partire per cercare un senso, per poter pensare al nostro abitare nel mondo?
Ecco allora quale potrebbe essere il primo passo della nostra ribellione: disegnare sguardi capaci di traiettorie impreviste e imprevedibili, voli assoluti in universi immaginari, librandoci nello spazio scuro come farfalle meccaniche dalle ali scintillanti.