Ha un titolo enigmatico, Zero Dark Thirty.
Una firma prestigiosa, quella della regista premio Oscar
Kathryn Bigelow.
E una storia di successo: la caccia e l’uccisione di
Osama bin Laden, una delle più terrificanti incarnazioni del Male.
Dal punto di vista cinematografico, Zero Dark Thirty non delude le aspettative: è un film potente e
intenso, dalle immagini suggestive e dal ritmo deciso, capace di lasciare
spazio sia all’introspezione che all’azione, in un delicato e mirabile
equilibrio.
Al centro dei riflettori, una donna, Maya. Apparentemente
fragile e delicata, nasconde dentro di sé l’istinto di un vero killer. In un
ambiente terribilmente maschilista come quello della politica militare, riesce
a far valere qualità spiccatamente femminili come l’intuito, la ferrea tenacia,
la fedeltà: soltanto in questo modo la sua magnifica ossessione – catturare lo
sceicco del terrore – può diventare realtà.
Con la sua evoluzione interiore, Maya incarna l’intera
opera: è lei il fulcro narrativo ed emotivo del film, tutto costruito sulla sua
visione. È un punto di vista molto particolare, per essere una narrazione
militare, eppure questa scelta rappresenta molti valori progressisti americani
ed occidentali.
Questa struttura narrativa - la storia di una donna
coraggiosa e testarda che lotta contro il sistema per qualcosa in cui crede
fortemente - sarebbe stata efficace anche se applicata ad un’altra cornice,
tratta dall’attualità o magari inventata.
Perché allora scegliere una chiave narrativa così intima
e personale per raccontare la guerra ad Al Qaeda?
Qui il terreno è delicato e carsico, e c’è il rischio
concreto di venire inghiottiti. Perché la guerra al terrorismo internazionale
non è una storia qualunque: è un evento che ha segnato la storia recente dell’intero
Occidente. In suo nome sono stati infranti diritti civili ed umani, in suo nome
sono state commesse atrocità in diverse parti del mondo.
Quali responsabilità è in grado di accollarsi un film
come Zero Dark Thirty?
Come gioca su quel labile confine che divide la realtà di
un evento dal suo racconto?
Code Name: Geronimo
sembrava il trailer di un videogioco. Zero
Dark Thirty, con la sua elegante potenza, sembra voler scrivere una verità
sulla pietra. Raccontandola senza mai sollevare l’ombra di un dubbio che possa
essere andata diversamente, il film della Bigelow avvalla la tesi secondo cui
nel blitz di Abbottabad del 1 maggio 2011 bin Laden è stato ucciso. E con la
sua autorevolezza, sembra voler certificare una realtà: non è più il
documentario ma la fiction a stabilire il grado di realtà di un evento.
Zero Dark Thirty
consolida dunque nell’immaginario la versione ufficiale dell’operazione.
Ma pur scavando in profondità dentro la protagonista, la
cui fedeltà e dedizione alla propria intuizione diventa soprattutto un modo per
ritrovare se stessa, il film non riesce a farci vedere nulla di nuovo. E si
interrompe con il riconoscimento del cadavere del terrorista. Tutto ciò che è
venuto dopo, stando al confuso racconto ufficiale, viene sorvolato: ovvero, perché
gettare precipitosamente in mare un trofeo del genere? Perché non documentare e
certificare la fine dello sceicco del terrore?
Zero Dark Thirty
evita di dare risposte. E diventa, purtroppo, uno strumento di propaganda,
volto a fissare nell’immaginario una ricostruzione filogovernativa e mainstream che ha il sapore di un’amarissima
menzogna.
Come già Code Name:
Geronimo, Zero Dark Thirty
rinuncia alla rappresentazione/finzione di bin Laden, il cui volto è fin troppo
impresso nella memoria dello spettatore, aumentando così l’impressione di
realtà.
Ma non è solo lo sceicco del terrore ad essere
invisibile: non c’è nessun approfondimento del nemico, dell’alterità. Non è
nulla di più che un bersaglio. Come se fosse una sagoma di cartone. Non c’è
nessuna volontà di comprensione, nessuna autocritica, nessun dubbio: il nemico
è una pedina da schiacciare.
Questo azzeramento psicologico e di spessore del nemico
fa paura: è un elemento aberrante e pericoloso, spia di un atteggiamento che
vuole ricondurre l’altro ai propri schemi mentali, alle proprie idee. Anche se l’altro
da sé ha un corpo, dei pensieri, delle motivazioni sue, questo non conta: conta
solo il suo ruolo, e quindi la sua sconfitta.
Anche la tortura rientra in questo schema di pensiero.
Più del suo valore strumentale, conta il suo valore
simbolico: l’aguzzino è in posizione di controllo, di dominio totale sul
nemico, e questo lo fa sentire onnipotente, lo gratifica. Che spiegazione dare
altrimenti all’umiliazione?
La prima parte di Zero
Dark Thirty è piena di scene di tortura. Sicuramente la rappresentazione,
per quanto cruda, non raggiunge l’orrore di ciò che davvero può essere
successo.
"Quelli di noi che
lavorano nelle arti sanno che la rappresentazione non è approvazione. Se così
fosse, nessun artista sarebbe in grado di dipingere le pratiche disumane,
nessun autore potrebbe scriverne, e nessun regista potrebbe approfondire i temi
spinosi della nostra epoca".
Queste sono parole della regista, Kathryn Bigelow.
E Michael Moore la difende, sostenendo che nessuno, di
fronte alla rappresentazione della tortura, può ritenerla moralmente giusta.
Il filosofo Slavoj Žižek, invece, nel suo articolo Zero Dark Thirty: Holliwood’s gift to
American Power critica pesantemente questa scelta:
"un segno di
progresso etico è il fatto che la tortura sia “dogmaticamente” respinta in quanto
ripugnante, senza alcuna necessità di discussione.
E per quanto
riguarda l’argomento “realista”: la tortura è sempre esistita, allora non è
meglio almeno parlarne pubblicamente? Questo, appunto, è il problema. Se la
tortura è sempre esistita, perché chi è al potere adesso ce ne sta parlando
apertamente? C’è solo una risposta: per normalizzarla, per abbassare i nostri
standard etici.
La tortura salva
delle vite? Forse, ma di sicuro perde delle anime – e la sua giustificazione
più oscena è quella di affermare che un vero eroe è pronto ad abbandonare la
sua anima per salvare la vita dei suoi concittadini. La normalizzazione della
tortura in Zero Dark Thirty è un segno del vuoto morale a cui ci stiamo
gradualmente avvicinando".
Da che parte stare?
La questione è delicata. Ma la rappresentazione della
tortura, nel film della Bigelow, non sembra avere un chiaro intento di
denuncia.
Il paragone con le violenze rappresentate in Diaz non regge: Daniele Vicari ha voluto
raccontare e denunciare una delle più grandi violazioni dei diritti umani avvenuta
in un Paese “civile” nel nuovo millennio. Kathryn Bigelow, invece, dà corpo e
immagini alla versione ufficiale di un’operazione militare di grande successo.
Con il rischio che, in nome del successo, si possa perdonare tutto. E ci si
possa dimenticare che con la tortura anche l’aguzzino perde la dignità e l’anima.
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