Chi
crea le notizie? Quali sceneggiature vengono scritte per noi ogni giorno, per
farci immergere in una storia di cui dovremmo essere soltanto gli spettatori
passivi e sottomessi?
Il
giornalismo attuale è sempre più vittima di se stesso: la fretta e l’ansia di
pubblicare una notizia spesso non consentono una accurata verifica delle fonti
e dei fatti. L’importante è sparare la notizia, salvo poi eventualmente
ritrattarla. In un mondo sempre più liquido e pieno di schermi, in cui la
suggestionabilità dell’homo videns sta nettamente surclassando la capacità di
pensiero dell’homo legens, una notizia trasmessa dalle tv di tutto il mondo è
molto più potente della sua eventuale smentita.
Il governo degli Stati
Uniti conosce perfettamente questa legge della comunicazione.
Il 2 maggio 2011 il
presidente americano e premio Nobel per la pace, Barack Obama, si è accaparrato
anche il ruolo di “Vendicatore dell’America” dichiarando soddisfatto in tv che
giustizia è fatta, bin Laden è morto.
La versione ufficiale del
blitz ad Abbottabad in cui il famigerato leader di Al Qaeda sarebbe stato
ucciso, per essere poi precipitosamente seppellito in mare, ha subito fatto il
giro del mondo grazie ai media mainstream, troppo spesso impegnati a spacciare
per vere le favole inventate dal potere.
Ma di fronte alle evidenti
contraddizioni e imprecisioni della versione ufficiale del blitz, l’impressione
è stata quella di essere spettatori impotenti di un evento tanto spettacolare
quanto finzionale: come in un nuovo cortocircuito tra realtà e finzione,
l’incarnazione del male ha trovato la morte in un’operazione militare in puro
stile action movie.
D’altra parte, in tutta
questa storia iniziata l’11 settembre 2001 con lo spostamento dei confini del
visibile e con l’immissione nell’immaginario del concetto di vulnerabilità, i
confini tra la realtà e la sua rappresentazione non esistono più, perché
tendono a coincidere.
Con l’operazione in
Pakistan la terrificante e imprendibile icona di bin Laden è stata
ufficialmente sgretolata, indipendentemente dalla veridicità dell’operazione:
forse il referente reale, lo sceicco del terrore, era morto già da tempo, ma
non la sua fantasmatica immagine, sempre pronta a tenere alta la tensione nel
mondo occidentale.
Cosa significa dunque
realizzare un film come Code Name: Geronimo?
Che significato assume un
lavoro di questo tipo in un mondo dove la realtà tende a scomparire,
inghiottita dalla sua rappresentazione?
Concentrandosi sul corpo
dei marines impegnati nel blitz e sui funzionari della stanza dei bottoni, il
film utilizza alcuni stilemi del cinema d’azione mescolandoli a soggettive da
war games in prima persona, in una fusione tra cinema ed estetica videoludica
che contribuisce alla creazione di una visione edulcorata degli scenari di
guerra e che restituisce una percezione della morte svuotata di profondità. Al
di là dell’aspetto formale, è chiaro che Code Name: Geronimo non è che una
grossolana operazione di propaganda politica e di mistificazione della realtà,
partorita tra l’altro in piena corsa elettorale. Negli USA il film è stato
trasmesso solo in televisione, su un canale generalmente dedicato ai
documentari: e questo è un passaggio fondamentale per capire come queste
immagini possano arrivare al grande pubblico. Eppure Code Name: Geronimo,
nonostante la sua forzata verniciatura di realismo, non può essere considerato
una docu-fiction: il suo script si appoggia ad una sceneggiatura mediatica
molto più ampia, ovvero quella che dal giorno del blitz di Abbottabad i media
occidentali hanno considerato come la più attendibile versione della fine di
un’epoca. Volendo rimanere fedele alla macro-sceneggiatura, la pellicola di
Stockwell non può - né vuole - aggiungere altro. Anzi, oltre a sdoganare
l’utilizzo della tortura, come nella scena iniziale, cerca di liquidare
frettolosamente anche le posizioni dei “complottisti”: le loro posizioni
saranno ovviamente smentite dalla rocambolesca fine di bin Laden.
In questo modo Code Name:
Geronimo si colloca pienamente dentro l’orizzonte della propaganda: il suo
obiettivo è quello di consolidare una narrazione, di dominarla e renderla
mitica e inattaccabile. È interessante sottolineare come questa pellicola condivida
con la macro-sceneggiatura della guerra al terrorismo la sostanziale
invisibilità del nemico: nonostante l’aura di ricostruzione storica del film,
il ruolo di bin Laden viene più che altro suggerito ed evocato, come fosse un
fantasma. Anche nel momento clou dell’assalto finale il suo volto non appare
mai interamente sullo schermo. Perché questa scelta? Sarebbe stato troppo
rischioso sostituirlo con un sosia, perché con le icone non si può giocare: si
rischierebbe di dichiarare al mondo che qualsiasi finzione, anche la più
crudele e terrorizzante, è possibile.
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