mercoledì 31 ottobre 2012

"CODE NAME: GERONIMO". MORTE DI UN'ICONA




Chi crea le notizie? Quali sceneggiature vengono scritte per noi ogni giorno, per farci immergere in una storia di cui dovremmo essere soltanto gli spettatori passivi e sottomessi?
Il giornalismo attuale è sempre più vittima di se stesso: la fretta e l’ansia di pubblicare una notizia spesso non consentono una accurata verifica delle fonti e dei fatti. L’importante è sparare la notizia, salvo poi eventualmente ritrattarla. In un mondo sempre più liquido e pieno di schermi, in cui la suggestionabilità dell’homo videns sta nettamente surclassando la capacità di pensiero dell’homo legens, una notizia trasmessa dalle tv di tutto il mondo è molto più potente della sua eventuale smentita.
Il governo degli Stati Uniti conosce perfettamente questa legge della comunicazione.
Il 2 maggio 2011 il presidente americano e premio Nobel per la pace, Barack Obama, si è accaparrato anche il ruolo di “Vendicatore dell’America” dichiarando soddisfatto in tv che giustizia è fatta, bin Laden è morto.
La versione ufficiale del blitz ad Abbottabad in cui il famigerato leader di Al Qaeda sarebbe stato ucciso, per essere poi precipitosamente seppellito in mare, ha subito fatto il giro del mondo grazie ai media mainstream, troppo spesso impegnati a spacciare per vere le favole inventate dal potere.
Ma di fronte alle evidenti contraddizioni e imprecisioni della versione ufficiale del blitz, l’impressione è stata quella di essere spettatori impotenti di un evento tanto spettacolare quanto finzionale: come in un nuovo cortocircuito tra realtà e finzione, l’incarnazione del male ha trovato la morte in un’operazione militare in puro stile action movie.
D’altra parte, in tutta questa storia iniziata l’11 settembre 2001 con lo spostamento dei confini del visibile e con l’immissione nell’immaginario del concetto di vulnerabilità, i confini tra la realtà e la sua rappresentazione non esistono più, perché tendono a coincidere.
Con l’operazione in Pakistan la terrificante e imprendibile icona di bin Laden è stata ufficialmente sgretolata, indipendentemente dalla veridicità dell’operazione: forse il referente reale, lo sceicco del terrore, era morto già da tempo, ma non la sua fantasmatica immagine, sempre pronta a tenere alta la tensione nel mondo occidentale.
Cosa significa dunque realizzare un film come Code Name: Geronimo?
Che significato assume un lavoro di questo tipo in un mondo dove la realtà tende a scomparire, inghiottita dalla sua rappresentazione?
Concentrandosi sul corpo dei marines impegnati nel blitz e sui funzionari della stanza dei bottoni, il film utilizza alcuni stilemi del cinema d’azione mescolandoli a soggettive da war games in prima persona, in una fusione tra cinema ed estetica videoludica che contribuisce alla creazione di una visione edulcorata degli scenari di guerra e che restituisce una percezione della morte svuotata di profondità. Al di là dell’aspetto formale, è chiaro che Code Name: Geronimo non è che una grossolana operazione di propaganda politica e di mistificazione della realtà, partorita tra l’altro in piena corsa elettorale. Negli USA il film è stato trasmesso solo in televisione, su un canale generalmente dedicato ai documentari: e questo è un passaggio fondamentale per capire come queste immagini possano arrivare al grande pubblico. Eppure Code Name: Geronimo, nonostante la sua forzata verniciatura di realismo, non può essere considerato una docu-fiction: il suo script si appoggia ad una sceneggiatura mediatica molto più ampia, ovvero quella che dal giorno del blitz di Abbottabad i media occidentali hanno considerato come la più attendibile versione della fine di un’epoca. Volendo rimanere fedele alla macro-sceneggiatura, la pellicola di Stockwell non può - né vuole - aggiungere altro. Anzi, oltre a sdoganare l’utilizzo della tortura, come nella scena iniziale, cerca di liquidare frettolosamente anche le posizioni dei “complottisti”: le loro posizioni saranno ovviamente smentite dalla rocambolesca fine di bin Laden.
In questo modo Code Name: Geronimo si colloca pienamente dentro l’orizzonte della propaganda: il suo obiettivo è quello di consolidare una narrazione, di dominarla e renderla mitica e inattaccabile. È interessante sottolineare come questa pellicola condivida con la macro-sceneggiatura della guerra al terrorismo la sostanziale invisibilità del nemico: nonostante l’aura di ricostruzione storica del film, il ruolo di bin Laden viene più che altro suggerito ed evocato, come fosse un fantasma. Anche nel momento clou dell’assalto finale il suo volto non appare mai interamente sullo schermo. Perché questa scelta? Sarebbe stato troppo rischioso sostituirlo con un sosia, perché con le icone non si può giocare: si rischierebbe di dichiarare al mondo che qualsiasi finzione, anche la più crudele e terrorizzante, è possibile.