venerdì 31 dicembre 2010

FARFALLE DI GHIACCIO


“Non possiamo neanche uccidere il re,
perché si dice siamo noi i bersagli.
Veramente vivo in tempi bui
E ora son diventato buio anch’io”
(Tempi bui, Ministri)

Il buio rende mimetici.
È facile nascondersi nell’ombra, tra le tenebre: si diventa uguali al resto della notte, si sciolgono i profili in un’oscurità indistinta. E le identità si perdono, le trame dei contatti si spezzano.
Il buio assoluto è il teatro perfetto per un delitto.
Di chi sarà la responsabilità dei cadaveri che si scoprono a terra, appena filtra un bagliore di luce?
Indizi e supposizioni non bastano. La mente si contorce in sterili congetture, senza la possibilità di una certezza.
Perché nel buio assoluto gli occhi non bastano più: occorre sentire e ascoltare con il corpo, con l’anima. Con un’arma potente e sconosciuta: l’intelligenza dell’ironia, la forza della cultura

martedì 30 novembre 2010

"VEDOZERO": HORROR ANTROPOLOGICO



“…Non tocco mai la gioia… non posso toccare la gioia…”
Un occhio che riempie lo schermo.
Liquido.
E sfocato.
Il linguaggio si frantuma.
Brandelli di comunicazione che palpitano sullo schermo, come barlumi di vita.
Vedozero è il grado zero della visione. È una pagina densa di immagini in movimento.
Il regista Andrea Caccia ha fornito di cellulari con videocamera incorporata 70 suoi allievi del liceo, diciottenni o quasi, con poche direttive: “Raccontatevi, filmatevi, autorappresentatevi”.
Il risultato del montaggio finale degli oltre 4.000 minuti raccolti? Un film poetico e crepuscolare, dove è lo stesso linguaggio a tessere la storia: l’apparente pluralità di sguardi si fonde in una visione che diventa unitaria, amalgamata, abissale.
Ed è una visione amara, che si spalanca sul vuoto.
Non ha intenti sociologici, Vedozero. Ma è quasi un horror antropologico.
Con le potenti e angoscianti musiche elettroniche, che fanno vibrare le immagini traballanti in un’atmosfera ancora più cupa, il linguaggio cinematografico restituisce una profondità che va oltre i singoli frammenti.
Perché, nonostante la soglia dei 18 anni sia teoricamente l’età dei grandi cambiamenti, non emergono chiaramente interessi, domande, paure che abbiano a che fare con il senso della vita, con riflessioni ontologiche, con rabbiose richieste di significati.
Non c’è alcuna bellezza, né gioia che sia possibile toccare.
Se ne può solo intuire il profumo, senza trovare una strada per raggiungerla.
È un panorama desertico, quello che emerge.
Perché la comunicazione viene ridotta a funzione fàtica, di contatto, e non riesce più a far entrare le persone in una reale condivisione che vada oltre lo stare insieme alla perenne ricerca del cazzeggio totale.
Il futuro? Un buco nero, che spaventa, ma che nello stesso tempo viene esorcizzato nella sterile ripetitività dei gesti quotidiani: la routine inghiotte tutto, dalle serate ad ubriacarsi alle cene con i genitori davanti ai quiz show; dallo studio per il 6 scolastico, completamente scollegato da qualsiasi idea di cultura, all’omologazione a mode e linguaggi che non lasciano nulla dentro, se non un vago senso di inadeguatezza, di angoscia.
Non c’è responsabilità, non c’è coscienza. Solo noia.
Come se l’intera generazione fosse stata anestetizzata.
Noia.
Vedozero non cerca colpe, non è il suo compito. Nella giostra della sua struttura così frammentata - in cui la frammentazione non è un processo di sintesi ma il frutto di un “reale” fragile e in frantumi - il film di Andrea Caccia e dei suoi ragazzi ha il pregio di spingere ad interrogarsi, senza fornire facili e scontate risposte.
Perché tanta solitudine, perché tanta noia e superficialità?
“…Non tocco mai la gioia… non posso toccare la gioia…”

domenica 31 ottobre 2010

FUMO NEGLI OCCHI




Giù il sipario.

Per strappare le pesanti tende della ribalta e scardinare le travi portanti del palco.

Per spegnere la macchina del fumo.

Troppo fumo, nei nostri occhi.

Troppo menzogne alle nostre orecchie.

E troppa paura.

Paura che ci inchioda alle poltroncine, spettatori inermi e quindi complici dell'assurdo teatrino quotidiano in cui si decidono i destini del mondo: la politica, e la sua rappresentazione quotidiana.

Magari hanno anche paura di noi.

Magari tremano, e ci mentono per poter conservare i loro privilegi.

Ma noi non sappiamo reagire.

Perché ce ne stiamo qui a guardare, immobili, spenti da un continuo bombardamento massmediatico che ci istruisce su quali pensieri "pensare"?

Perché ci lasciamo prendere in giro in loop, come se ormai avessimo davvero una coscienza critica in tilt?

La guerra in Iraq, ad esempio. Perché abbiamo permesso tanto abuso di potere e tanta ipocrisia?


Lo rivela Wikileaks, con la pubblicazione di documenti militari segreti. Lo racconta anche un film come Fair Game: c'era qualcuno che sapeva. Qualcuno che ha anche tentato di opporsi al pensiero guerrafondaio dell'enturage di Bush. Ma la sua voce non è stata abbastanza forte. La voce di chi credeva nell'inutilità della guerra - di una guerra scoppiata solo per far crescere paure e introiti dell'industria bellica - è stata messa a tacere.

É questo il modello di democrazia da "esportare" per salvare gli "incivili" Paesi attaccati?

Ma neanche il popolo è innocente.

Perché l'ignoranza non è mai senza colpe.

Quanti soldati spediti nel deserto non conoscevano le vere ragioni del loro essere là, in mezzo alla sabbia, a rischiare la vita? Quale concezione potevano avere del valore della loro vita? Ecco allora che anche quei soldati, incarnazione "soggettiva" di una violenza "sistemica", diventano parte dell'ingranaggio, olio che fa scorrere i motori, disseminando morte come fumo nei nostri occhi.

E l'idea della "missione di pace" - associazione di parole tanto cara ai burattinai di casa nostra - è permeata della stessa violenza "sistemica".

Perché la menzogna è violenza.

Ciò che manca nella politica - ma purtroppo troppo spesso anche nel tessuto sociale - è l'umanità.

L'umiltà dell'umanità.

Così 20 sigarette - film autobiografico di Aureliano Amadei, unico civile sopravvissuto all'attacco iracheno al presidio militare italiano a Nassiriya, nel 2003 - diventa un film importante proprio perché, nonostante un eccesso di retorica che fa capolino solo nella parte finale dell'opera, fa emergere l'umanità delle persone coinvolte.

Un'umanità che si rivela sia nei sogni di pace di un aspirante regista, sia nei semplici gesti di accoglienza e rispetto di un militare in missione.

Perché la chiave di tutto è sempre lì: nell'umanità dei rapporti che ogni persona instaura con l'"Altro", con il diverso da sé.

E finché non faremo fruttare le nostre caratteristiche, la nostra specifica umanità, i cinici burattinai al potere continueranno ad insultarci e umiliarci, cercando di sotterrare le radici della nostra forza: l'umanità, la sensibilità, il calore umano.

Giù il sipario, allora.

E andiamo a spegnere la macchina del fumo.




giovedì 30 settembre 2010

PROIETTILI CHE NON FANNO MALE: "LE ULTIME 56 ORE"

La storia - Reduce dalla “missione umanitaria” del Kosovo, il colonnello Moresco vuole fare in modo che venga riconosciuto il collegamento diretto tra l’esposizione all’uranio impoverito e la leucemia che ha colpito molti soldati. Sceglie così di mettere sotto assedio un ospedale per ottenere visibilità. Ma di fronte si troverà un negoziatore dalle motivazioni altrettanto forti.

Proiettili che uccidono a scoppio ritardato. Corpi virili di uomini coraggiosi inchiodati ad un letto, senza scampo. È difficile combattere contro un nemico invisibile, letale, che si incunea dentro la carne per esplodere in un tempo successivo. La guerra, con i suoi veleni e le scorie radioattive sparse sui campi di battaglia, ammazza senza tregua soldati e civili anche dopo la sua ufficiale fine. È sullo spunto, romanzato ma realista, delle conseguenze dell’uranio impoverito che si fonda Le ultime 56 ore. Gli effetti collaterali di un’operazione di pace, la burocratica indifferenza delle istituzioni, il confronto con lo spettro di una lenta agonia: sono temi scottanti e insidiosi, che raramente il cinema italiano ha affrontato con un linguaggio di genere. Il regista Claudio Fragasso - la cui filmografia spazia dall’horror di Monster Dog alla denuncia sociale di Teste rasate - sceglie di alternare l’accattivante linguaggio di un action thriller dai ritmi serrati ad un registro melodrammatico più dilatato, in cui sono sensazioni e sentimenti a venire a galla. Il topos narrativo del “sequestro per giusta causa” trova espressione nella decisione del colonnello Moresco di irrompere in un ospedale siciliano con la sua squadra - una vera e propria cellula tumorale all’interno del corpo dello Stato - e di sequestrare medici e pazienti: la scelta di inseguire rivendicazioni pacifiste attraverso un atto linguistico armato è una provocazione o una folle violenza? A fronteggiare l’intricata situazione è il negoziatore Manfredi, coinvolto emozionalmente nella tragedia perché moglie e figlia sono tra gli ostaggi: il suo istinto e la sua carica sentimentale si oppongono con forza alla disciplinata lucidità del militare ribelle. Ma dietro l’apparente follia di un militarismo esasperato e provocatoriamente insensibile si nasconde in realtà un progetto di rappresentazione mediatica, che mira a sfruttare la notiziabilità televisiva come cassa di risonanza per toccare la sensibilità sociale: ed è proprio questa fusione di realtà e finzione, con tutte le sue implicazioni anche meta-narrative, a rappresentare uno degli aspetti più originali per il panorama cinematografico italiano. L’intreccio dei linguaggi getta però ombre lunghe sul confezionamento del film, che trova nell’eccessiva enfasi retorica in stile fiction televisiva uno dei suoi limiti strutturali. Coraggioso nelle intenzioni, Le ultime 56 ore gioca sui paradossi morali, rimanendo intrappolato in se stesso: come se la richiesta di “proiettili che non facciano male” fosse la metafora di un cinema impegnato che non riesce però a farsi vettore di trasformazioni reali, spegnendo l’esplosiva carica di denuncia dentro lo schermo.

(pubblicato su "Duellanti")

martedì 31 agosto 2010

L'ISOLA DELLA VIOLENZA INVISIBILE



Madri che uccidono la propria carne.

Uomini che ammazzano l'amore.

Piromani che danno fuoco alle coscienze.

In che regione dell'anima nascono e vengono a galla gli atti di violenza? Sono esplosioni isolate, deflagrazioni dell'essere che interrompono uno stato di "pace", oppure sono il frutto maturo di un albero che cerca di mimetizzare le radici nell'invisibilità?

"É necessario - scrive il dirompente filosofo Slavoj Žižek - che percepiamo i contorni dello sfondo che genera quegli scoppi".

E lo sfondo non è un idilliaco quadretto romantico, ma un mondo costruito su una violenza talmente pervasiva e radicata "che nutre i nostri stessi sforzi di combatterla". La violenza "soggettiva", quella che implica chiaramente un soggetto che la compie, non è che la punta di un iceberg che nasconde altri due tipi di violenza: quella "simbolica" insita nel linguaggio, nel semplice atto di un'enunciazione; e quella "sistemica", vero e proprio elemento costitutivo del nostro modello politico, economico, sociale. E culturale.

Si possono applicare queste categorie di pensiero ad un prodotto culturale, come ad esempio un film?

La riflessione visiva sulla violenza è uno dei punti fermi della cinematografia di Martin Scorsese. Ambientato nelle stanze cupe di un penitenziario specializzato nella cura di criminali malati di mente, Shutter Island è uno psico-thriller nel cui intreccio i tre ordini di violenza si fondono in maniera lampante, quasi didascalica.

Nello stesso tempo carnefice e vittima, assassino e assassinato, il protagonista - un detective ossessionato dai fantasmi del passato - crea una dimensione alternativa della realtà come rifugio per la sua stessa sopravvivenza. In una spirale che fa vorticare suggestioni e ricordi, frullandoli con visioni, incubi e angosce, trincerarsi dietro una follia paranoica sembra l'unica salvezza.

Ma i fantasmi sono causa o conseguenza della follia? Un ufficiale nazista da ammazzare, una moglie da salvare... una bambina da proteggere... chi assicura che siano ricordi puri, autentici? Esistono ricordi veri, oppure tutto viene filtrato dagli occhi della mente, che proprio come un otturatore - uno shutter - lasciano passare soltanto la luce che vogliono, fino a cambiare i colori e i contorni della realtà?

...Forse i fantasmi non sono altro che i ricordi sospesi in un limbo tra passato e presente, che ci implorano di essere lasciati liberi di volare via... E allora diventano presenze vive, immagini concrete, visioni interattive.

Nel gigantesco gioco di ruolo in cui il protagonista di Shutter Island annega, tutto è simulato: immagini e ricordi sono guidati, condivisi, indotti. É un gioco di ripetizione e di rifacimento, una messa in scena psicologica organizzata per scopi curativi, "umanitari": non esiste più una realtà "oggettiva" per il detective, il quale ha soltanto la possibilità di rivivere ciò che ha vissuto, per poter finalmente accettare il passato e far volare lontano i fantasmi.

Ma è proprio qui, in questo intreccio e svelamento di violenze "simbolica" e "sistemica", che Shutter Island si incrina e si corrode nelle sfumature che sono la sua stessa essenza.

Un po' come succedeva in The Aviator, dove dell'epopea del magnate Howard Hughes veniva raccontato tutto, tralasciando il piccolo insignificante particolare delle sue simpatie di destra.

Leggere la storia del detective Teddy Daniels all'interno della cornice del testo filmico può aiutare a cogliere la violenza "simbolica" del linguaggio cinematografico scelto da Scorsese, che sembra voler giocare con l'intuito creativo dello spettatore, salvo poi spingerlo nella strettoia di un'interpretazione obbligata che non lascia spazio alla fantasia. Ma è soprattutto la violenza "sistemica", più viscida e pericolosa, ad inquietare: perché, se nel gioco di simulazione e dissimulazione che regge il microcosmo di Shutter Island, anche i sospetti e i crimini più atroci (come la sperimentazione su cavie umane) vengono ridotti a semplice invenzione di una mente malata, cosa ne è dei flashback riguardanti la Storia, il mondo politico, gli stermini del nazismo? Sono appigli reali, con un referente concreto, oppure rielaborazioni fantasiose di una mente persa tra i fantasmi della ragione? Se così fosse, la costruzione di una macchina narrativa così subdola da far passare quasi inosservata una velleità di negazionismo risulterebbe una raffinata quanto insidiosa forma di violenza "soggettiva".





sabato 31 luglio 2010

BOMBE IMPERFETTE


"la carne s’è fatta vendetta il corpo è la bomba perfetta

pacco esplosivo sigillato in provetta
bomba intelligente sporca asettica
il corpo è la bomba perfetta la carne s’è fatta vendetta"

Da dove nascono le immagini?

C’è una fucina dove vengono forgiate, confezionate, e immesse nel circuito dell’immaginario?

E chi ha il potere di sceglierle, di decidere come disegnarle, di farcirle di significati?

Nell’era degli schermi - sempre più digitali e tattili, sulla cui superficie si accendono a intermittenza frammenti di senso - sono le visioni e gli sguardi a costruire una realtà.

Visioni e sguardi pensati e strutturati anche a livello politico e sociale: e dunque pericolosi, perchè possono creare mondi paralleli artificiali ma dalle conseguenze terribilmente reali.

È la pratica della mistificazione, malattia mortale che scolla le immagini dai loro reali referenti.

“…E se i fatti non rispecchiano la teoria, tanto peggio per i fatti…”

Dopo sette anni di guerra e guerriglia quotidiana - fatta di sospetti e paure, di sabbia e sangue - le truppe americane sono pronte a lasciare i territori dell’Iraq. E lo fanno senza aver trovato tracce di armi di distruzione di massa (la causa che ha fatto scoppiare la guerra nel marzo 2003) e tantomeno senza aver saputo esportare e far crescere una vera democrazia. Lasciano perciò un Paese nel caos, ancora frastagliato in etnie che si odiano e si scontrano, in cui i terroristi sanno ancora - e forse più di prima - coltivare la loro vigliacca strategia del terrore, a suon di attentati e bombe contro i civili.

Perché il governo americano ci ha messo così tanto a far rientrare le truppe di una guerra che potrebbe essere infinita?

Perché tanta arroganza e prepotenza, da una parte e dall’altra, nella volontà di dominare, di imporre il proprio modello, senza saper accettare la diversità culturale e sociale?

Perché tanta ipocrisia e giochi sporchi, macchiati con il sangue di vittime innocenti?

Ancora prima che sul sito di Wikileaks venissero pubblicati e rivelati al mondo documenti trafugati a governi e a servizi segreti, era evidente che la verità non fosse quella che i telegiornali avevano tentato di dipingere.

E anche il cinema, fatto di immagini e di sogni, aveva illuminato con i suoi fari zone oscure del reale, accendendo nuove prospettive e particolari punti di vista, nello stesso tempo esterni ed interni alle cose, grazie al potere del racconto. Da Redacted e Nella Valle di Elah fino a The Hurt Locker e Green Zone la settima arte ha cercato il confronto con le immagini “ufficiali” della guerra in Iraq. Magari qualche volta non colpendo pienamente l’obiettivo, magari sfiorandolo, o anche solo rivelandolo, senza il coraggio sufficiente per affrontarlo. Eppure, nonostante tutto, film di questo calibro hanno cercato di svelare la falsità e l’artificiosità delle immagini in versione ufficiale. Suona un po’ paradossale forse, ma tant’è: come se una dichiarata “messa in scena” - quella del testo filmico - fosse in grado di penetrare più a fondo nel reale rispetto alle rappresentazioni di altri mass media preconfezionate e spacciate per vita vera.

E così, nel rivelare il gioco di costruzione di un’idea di realtà, il cinema diventa uno strumento politico e svela anche la violenza che il potere esercita sul corpo e sulla psiche sociale, nel tentativo di creare un mondo accettato e condiviso. Ma artificioso e artificiale. Un mondo che non vogliamo.


mercoledì 30 giugno 2010

SCHEGGE DI EMOZIONI


“…Lei capisce signore

una luna che cade
non é un fatto da potersi tacere
che trasforma una notte qualunque in un sogno
e in un grido
questo nostro parlare…”


Un brivido che corre lungo la schiena, e attraversa il corpo, le braccia, la testa.
Fino al cuore.
Essere le proprie emozioni.
Avere il coraggio di viverle, sentirle sulla pelle.
E poi magari raccontarle.
Gocce di poesia colano dalle canzoni di Gianmaria Testa.
Sarà la sua voce così intensa, profonda, vera.
Sarà la semplicità della sua musica, la verità toccante delle liriche.
…E i ricordi volano, le emozioni infrangono le barriere della razionalità… stelle che si accendono dentro, luci dolci e dolorose che illuminano il buio… e resistono, come lucciole che non vogliono arrendersi ad un sole assassino…
Voglia di notti di mare.
Voglia di gocce di vita.
Voglia di amore.


“…Volevo tenere per te
la luna del pomeriggio
volevo tenerla per te
perché è sola
com’è solo il coraggio
volevo tenere per te
la luce di quando fa giorno
volevo che fosse per te
anche l’attesa che diventa ritorno…”


lunedì 31 maggio 2010

FANTASMI NEL VENTO



Il vento evoca fantasmi.

Un vento freddo spazza la riva di un'isola quasi deserta: un rifugio dove cercare l'invisibilità.

Ma la verità è in agguato, desidera farsi scoprire e svelare, stanca di nascondersi tra le troppe parole inutili di una biografia falsata.

il ghost writer è un aspirante scrittore chiamato a redigere la complicata biografia di un ex primo ministro: ma la situazione si ingarbuglia quando il politico torna sotto i riflettori dell'opinione pubblica perché accusato di aver autorizzato torture contro presunti terroristi.

L'universo de L'uomo nell'ombra, ultimo thriller di Roman Polanski, è popolato di fantasmi: il ghost writer è un fantasma, e nello stesso tempo uno scrittore di fantasmi.

Le parole sono evanescenti, raccontano senza svelare del tutto, come enigmi da decifrare.

Come un vortice di foglie spazzate via da un vento incessante.

La marea lambisce un cadavere sulla spiaggia. Il potere lavora sotto-traccia, tra le nebbie e la pioggia che flagellano l'isola, per occultare la verità, per debellare la fantasia, per ammutolire chi ha visto.

É così che funziona il potere politico: uno zombie che si nutre di paura e paranoia.

Ma la paranoia si rivela un'arma a doppio taglio, ed esplode in mano a chi le regole le può - o poteva - dettare: genera così una cascata di sospetti, ritorsioni, terrori, violenze.



Il mondo si può governare attraverso la paura, plasmando una realtà sempre più simile ad un bunker nascosto in un'isola in mezzo all'oceano: una realtà in cui le persone - anche quelle di potere - cercano di isolarsi l'una dall'altra. L'esclusione dell'altro, il rifiuto del confronto, la riduzione della diversità ad un inconveniente sembrano i valori fondanti su cui costruire l'illusione della propria sicurezza e del proprio potere.

Nell'intricato accumulo di tensione che porta sullo schermo, L'uomo nell'ombra accende i riflettori su lati inquietanti dello spazio del potere politico, lasciando l'amara sensazione di essere fin troppo reale.

Ma questo - per quanto paurosamente attuale, tra dittature camuffate, "infernali" costituzioni stracciate, leggi create ad hoc per poter peccare in santa pace - è un estremo della rappresentazione dello spazio politico: perché dall'altra parte brilla invece il modello di interazione ed inclusione del Sudafrica di Mandela, come in Invictus di Clint Eastwood.

Il primo leader nero del Sudafrica, con la sua storia di ferrea resistenza e la volontà di costruire una nazione pacifica, è il paradigma del dialogo e dell'inclusione: e il coinvolgimento parte dalle piccole cose, dalla palla ovale che rimbalza su un campo di rugby, dal colore di una maglia, dal rispetto per gli avversari.

É con il sudore della vita quotidiana che si stabilisce un contatto, e questa non è agiografia, ma Storia: un capitolo di Storia raccontato con eleganza e cura da un regista impegnato nel tracciare con le sue opere un percorso tra le sfumature dell'anima sociale.



venerdì 30 aprile 2010

LUCCIOLE CONTRO LE BOMBE. "L'UOMO CHE VERRA'"


Una preghiera nel silenzio.

È notte, sulla cima della collina, mentre il cielo sopra Bologna lampeggia di esplosioni fragorose.

Una donna incinta lancia al cielo le sue speranze.

Accanto a lei, seduta sull’erba bagnata, la piccola Martina: una bambina di otto anni che ha scelto il silenzio dopo la morte del fratellino.

Piccole luci si accendono. Fragili, timide. Come soffi di vita.

Sono lucciole, schegge che brillano in una notte feroce.

È questa una delle immagini più poetiche e dense de “L’uomo che verrà”, film di Giorgio Diritti che racconta la speranza in un’umanità migliore attraverso una delle pagine più cupe della storia, l'eccidio di Montesole.

L'irruzione violenta della Storia nella sfera privata costringe le donne protagoniste ad un simbolico passaggio di consegne: la maternità - intima, sociale, morale - è la chiave d'accesso alla sacralità del quotidiano.


E non a caso sono proprio gli sguardi femminili a raccontare prima la vita quotidiana di una piccola comunità contadina, poi la tragedia. E attraverso i loro occhi filtra tutto: la speranza e la rabbia, il coraggio e l'amore.

Con le soggettive e le semisoggettive, i piani d'ascolto, la macchina da presa che segue la morfologia delle colline della Linea Gotica, "L'uomo che verrà" è il mirabile esempio di un cinema capace di personificare gli sguardi e di scomporli in diversi punti di vista. Così gli orrori della guerra perdono la loro connotazione strettamente politica, strategica, militare, e diventano abissi antropologici, in cui l'intelligenza e la pietas umane annegano in una marea nera di crudele vendetta, di prepotenza e odio accecante.

È la guerra.

Una guerra bestiale, assurda, che monta su se stessa come un vortice. Come un virus impazzito.

Una guerra che non è il teatro di sfida tra angeli e demoni, ma tra persone.

Cosa ci può essere di più tragico?

"L'uomo che verrà" è un film coraggioso, urgente, necessario. Perchè, nel suo prendere corpo e vita sullo schermo, affronta una domanda cruciale: cosa significa essere partigiani oggi?

La ricerca di una risposta non si arena sul paludoso terreno degli schieramenti ideali e politici, ma si concentra sull'umanità più profonda, viscerale, intima. Sulla sensibilità, sulla cura e potenza dello sguardo. L'essere partigiani è una questione di prospettiva, di visione, di costruzione di uno sguardo combattente e combattivo, rivolto al futuro con speranza e con il bisogno - appiccicato addosso, sulla retina - di ricordare e imparare.

In questo senso, quello di Diritti è dunque un film partigiano, che mette in gioco un'idea potente di cinema, grazie ad un linguaggio semplice e intenso, fatto di sguardi e visioni.

Isolata nel silenzio che ha scelto per elaborare un lutto, la piccola Martina non parla, ma sa guardare e scrivere.

Nei suoi occhi vibrano il desiderio e il coraggio di vita.

Dentro i suoi occhi scorre l'invisibile.

E forse è proprio questo che la salva dall'orrore del rastrellamento nazista di Montesole. Silenziosa, invisibile - quasi una creatura eterea, fiabesca, magica - riesce a mimetizzarsi nei boschi proteggendo una vita sbocciata da poche ore.

Come il cinema, la natura umana è fatta di immagini e parole.

Nel mutismo di Martina riemerge con forza, paradossalmente, il valore della parola come strumento di umanità: la ninna nanna finale appena sussurrata, tra le macerie e i cadaveri, è un grido di dolcezza emozionante, la nascita di una nuova speranza.

E magicamente il volo di una lucciola accende la notte dell'anima.

lunedì 15 marzo 2010

PSYCHO SONG


Brucia il silenzio.
Parole che sbandano in curva su sogni ghiacciati, e si frantumano in schegge di rabbia acuminate.
E ti rialzerai, riaprirai le saracinesche dei tuoi occhi caldi e metallizzati.
E di nuovo farai finta che non sia successo nulla, ti lascerai dietro catastrofi interiori marchiate da un copyright che non riconosci.
Fino a quando lo stupore ti assalterà.
E di nuovo comincerai a correre dentro la notte dei tuoi sogni.
Ti farai male, lo sai, ma non hai scelta.
Una favola notturna che striscia dentro le lenzuola.
E il respiro diventa desiderio, tra le gocce di paranoie infinite che colano dai tuoi sbagli.
Io sarò il tuo dolce demone di sangue incandescente.
Corri, inseguimi e fatti rapire, proviamo a perderci dentro, ogni goccia di veleno si disinnesca se proviamo a danzare sopra le note di una chitarra distorta, la nostra verità ci esplode addosso, ci spacca la testa, un volo fragile in un inferno di fiori recisi tra vento e grandine, sole e cenere, come farfalle di fuoco che galleggiano in un’aria densa di luce gelida. Corri, stringimi e baciami, portami nel tuo mondo, potrai affogarmi nel tuo calore e rimboccarmi le palpebre con sogni ardenti, potrai sorreggere il mio corpo quando non saprò trovare il coraggio di alzarmi in volo, le tue ali forti di fiamme e immagini. E assalteremo i cieli con canzoni lacrimogene, la nebbia assurda dei sensi ci avvolgerà lieve, e quando come reazione chimica ci dissolverà saremo finalmente puri, scintille di stelle abbracciate nel cielo.
Come in una favola notturna, una visione ad occhi chiusi.