martedì 30 dicembre 2008

UNA, NESSUNA, CENTOMILA VERITA'

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Un boato sordo, come un terremoto.

Esplosioni di bombe in differita piombano dal televisore: una pioggia di missili su Gaza.

Bagliori in lontananza, dichiarazioni ufficiali, commenti politici si inseguono e si confondono, evitando di incunearsi nelle pieghe della realtà.

Quante morti incidentali ci saranno state? 290? Quanti civili inermi massacrati dalla vigliaccheria di un missile sbagliato?

La brace del Medio Oriente si infiamma nuovamente, e divampa in un incendio pericoloso per la coscienza dell’occidente. Da che parte sta la verità, se ce n'è una?

Non è nell'arroganza di chi crede di poter governare i destini del mondo.

Non è nel fanatismo che scatena l'odio.

Non è nella volontà di vendetta che scatena una spirale di cieca violenza.

Forse, davvero, non c'è Nessuna verità. Come recita il titolo dell'ultimo film di Ridley Scott.

Un film che gioca sulla paura globale del terrorismo, per costruire un action movie che si snoda tra le sabbie del deserto mediorientale e i satelliti guidati da Washington.

Le cellule terroristiche sembrano proliferare ovunque: nelle periferie delle grandi metropoli, tra le cattedrali del deserto, sui tavolini di un covo disperso nel nulla.

Ma anche nel film di Ridley Scott - così come succede in molte altre pellicole contemporanee, da Iron man a Leoni per agnelli - il terrorismo non è il vero soggetto su cui puntare i riflettori per accendere una riflessione: piuttosto è usato come un mac guffin, come sfondo, come elemento puramente strumentale della narrazione.

Certo, gli spunti potenzialmente interessanti non mancano. Qualche esempio?

- La proliferazione dei punti di vista: dall’alto dei satelliti, appesi ad un filo. O tra il polverone del deserto che disorienta anche le tecnologie più potenti. Il verticale e l’obliquo che si fondono nelle visioni dei protagonisti e nell’occhio della macchina da presa.

- La penetrazione profonda della tecnologia di controllo nel territorio nemico, con satelliti ad alta precisione in costante monitoraggio.

- L’ipocrita collaborazionismo tra i servizi segreti di diversi Paesi, in lotta per chissà quale schiacciante vittoria.

- La costruzione di un dedalo di bugie e pregiudizi difficili da abbattere, da una parte e dall’altra, su cui si fondano stereotipi comportamentali e di pensiero politico.

Ma Nessuna verità non affonda gli artigli in una riflessione profonda sulle delicate questioni dei rapporti diplomatici, né sull’ontogenesi del fenomeno del terrore globale.

Perché allora soffiare sul fuoco che alimenta le paure?

In quanto metamedium, il terrorismo si nutre anche di tutti quei prodotti culturali che fanno leva sulla spettacolarizzazione delle ansie planetarie, delle nevrosi, degli incubi in cui precipita la gente comune.

E non fa ancora più paura una guerra combattuta come se fosse un videogame?

Non una guerra a cui si possa porre fine con un risoluto atto democratico di confronto e dialogo, un atto concreto e reale. Ma una guerra combattuta da e tra individui, singoli, egoisti ed egocentrici, scollegati da qualsiasi legame con il tessuto sociale reale: una guerra di avatar che si danno battaglia su un territorio che non ha più confini, né fisici (le aride terre mediorientali o le città europee) né massmediatici, tanto che si può fingere una strage per suscitare l’invidia di cellule terroriste e portarle così a commettere dei passi falsi. Ma la finzione è inghiottita dalla realtà, e il cortocircuito fa saltare qualsiasi banale distinzione tra innocenza e colpevolezza. Semplice danno collaterale, frutto di una visione eccessivamente spettacolarizzata ed individualista della realtà sociale?

Ci vorrebbe più coraggio, anche nel cinema, per affrontare temi delicati come il terrorismo ed evitare di annebbiarli con le polveri sollevate dagli elicotteri di una visione distorta della guerra.


domenica 16 novembre 2008

MAGIE


A volte, le magie succedono.
Nelle storie che riempiono il tuo mondo,
nelle vite che ti vibrano accanto.
Magie dolci,
fuochi teneri e sensuali
che si accendono
in notti di luna e stelle.
Come per incanto.
E sono scintille che volano,
traiettorie lucenti di desideri e passioni,
baci sorridenti con gli occhi e le labbra.
Sono fremiti di vita vera,
profonda, intensa, struggente.

A volte, le magie succedono.
Ed è un dono saperle cogliere e valorizzare
in quell’infinito presente
che sempre
dovrebbe essere la vita.
Emozioni che diventano storie,
racconti che si trasformano in corpi,
sogni che si fondono con la realtà…
E non per caso,
ma per scelta:
la scelta di avere coraggio,
di mettersi in gioco e sfidare mostri e paure.
La scelta di vivere,
e innamorarsi.

A volte, le magie succedono.
E con la loro carica di luce
- se solo hai ancora abbastanza forza
negli occhi per coglierle -
diventano punti di riferimento,
stimoli potenti e vitali.
Costellazioni che illuminano di speranza
anche il buio del cielo,
soffice brezza che allontana
le nuvole oscure dei dubbi che ti stritolano
sulla tua intima capacità
di fare altrettanto,
di donarti e metterti in gioco,
di innamorarti delle splendide persone
con cui hai la fortuna
e il dono
di condividere la tua vita.

A volte, le magie succedono.
E tra meraviglia e incanto,
il dono della vita
e dell’amore
continua ad ardere,
in un fuoco dolce e illuminante.

venerdì 31 ottobre 2008

TRA MOSTRI E INCANTO

...


Sono sempre in agguato, i nostri mostri. E si autogenerano, tra paure e fragilità.

Nel fruscio silenzioso della loro apparente assenza, affilano le armi per l’attacco incombente.

Schegge di inquietudine volano da una parte all’altra dei pensieri.

Piccoli rumori, timidi scricchiolii che annunciano guerra.

Come fermarli, come sconfiggerli? Come provare almeno a lottare per vendere cara la pelle?


C’era una volta l’illusione che i mostri fossero soltanto nel mondo.

Per quanto subdoli, potenzialmente pericolosi, nascosti, sembravano poter essere reali, presenze concrete da fronteggiare a viso aperto, con le spade dell’intelligenza e le frecce avvelenate della vendetta.

Ma poi l’illusione si è sgretolata. Tra acuminati vetri in frantumi, si è fatta largo una domanda: e se i veri mostri fossimo noi?

Come ci insegna Alien, nella sua perturbante e shockante carica sessuale eversiva, maternità e morte sono strettamente intrecciate: partorire un mostro significa un po’ morire.

Ma l’essere umano non è innocente, mai: perché è lui stesso a dare forma all’orrore più mostruoso, a farlo proliferare fino a renderlo autonomo.

Le uova che si schiudono, dentro il suo ventre, sono simbolo della creatura che si ribella al creatore.

Il male nasce dentro l’uomo, come il virus dell’autodistruzione. Non è più una minaccia che arriva fragorosamente dall’esterno. È un mostro mutevole, sinuoso, viscido. Che offusca le possibilità di comprensione negando la propria completa e certa visibilità. Come un lugubre fantasma di luce che danza, eternamente fuori fuoco.


La creatura mostruosa deborda dallo schermo dell’immaginario collettivo, oltre il taglio dell’inquadratura, scivola nel fuori campo e si rifugia nell’invisibile dell’interiorità, offuscandola con lunghe scie di sangue.

Il mostro non è la maschera dell’Altro assoluto, distante e nemico: il mostro è qui, sotto il letto impolverato dei ricordi, tra le lenzuola umide dei nostri desideri.

È il sanguinario vampiro che succhia la linfa vitale dei sorrisi.

È lo spaventoso zombie che ci stringe forte le mani sul collo per soffocarci.

È il violento golem pronto a sgretolarci.

È la creatura senza volto, fantasmatica e informe, misteriosamente sfuggente. Senza occhi per ascoltare, senza carne per vibrare. Una maschera vuota e terrificante, metafora dell’horror vacui, dell’incapacità di sentire e di amare.

Ibridato con l’identità, il mostro è profondo, intimo, viscerale.

E fa paura, perché porta a galla le nostre paure. Le fa esplodere, rischiando di trasformarci in veri mostri. Come in Sweeney Todd, dove, tra fiotti di sangue giugulare e carne macinata, l’umano perde qualsiasi pietas, divenendo mostruoso.


Nel rapporto conflittuale tra angeli e demoni, farfalle e draghi, fate e streghe, si stabilisce un processo osmotico di confronto che assomiglia sempre di più ad un gioco di reciproca seduzione.

Come nel corteggiamento post-romantico de La sposa cadavere, struggente fiaba gotica venata di malinconie e poesia.

Sospesa tra architetture barocche e atmosfere darkeggianti, la promessa sposa si muove tra il grigio mondo dei vivi e un colorato regno dei morti.

Il suo più grande desiderio?

Convolare a nozze con quell’impacciato essere umano che l’ha involontariamente riaccesa di passione.

Insinuarsi dentro l’esistenza dell’uomo e scuoterlo dal grigiore del suo abito impolverato.

Per salvarlo, e rigenerarsi.

Per costruire insieme un rapporto simbiotico paradossalmente vitale, dove vita e morte si intrecciano, in un legame inestricabile.

E pro-creare una nuova forma di identità mutante. Da far librare in aria, come per magia. Come nell’incantevole scena finale, in cui la principessa cadavere evapora in un vortice di farfalle di luce, che volano verso la luna.

Perché anche la farfalle di luce - con la loro delicatezza e mostruosa fragilità - possono essere figlie dei nostri mostri.

E allora dobbiamo imparare a conoscerli bene, i nostri mostri. Ad amarli. E a capire che dentro di noi sono veri, anche se sono soltanto illusioni.


martedì 30 settembre 2008

SCIMMIE IN GABBIA

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La verità è un rombo di tuono in lontananza: un rumore sordo, confuso, minaccioso.
Il cielo plumbeo di Istanbul fa paura.
Neanche la correzione digitale del colore riesce a sfumare le grida invisibili dei fantasmi, che si annidano negli anfratti più tenebrosi del cuore.
Occhi che sanguinano lacrime trattenute.
E di fronte, fin oltre l’orizzonte, un mare grigio perla. Muto. Rassicurante nel suo silenzio.
Non parlare. Non guardare. Non ascoltare.
Le tre scimmie – titolo del film firmato dal regista turco Nuri Blige Ceylan – danzano in un macabro rituale di quotidiana disgregazione familiare.
Luci e ombre scavano sulla superficie di corpi feriti, scivolano dentro l’anima, come freddo nelle ossa, fino a marchiarla d’odio.
Il rifiuto della realtà è totale.
La percezione delle dinamiche umane risulta alterata, come disturbata da frequenze malsane. Rumori.
Gocce d’acqua che cadono. Porte che scricchiolano e sbattono. Treni in corsa in mezzo al nulla.
Piccoli suoni, che accentuano un silenzio profondo e marcio.
Come in un lentissimo videoclip, fatto di sibili, tonfi, cigolii, attorno a cui ruotano parole svuotate di ogni senso e pretesa di profondità.
Anche le immagini restano in attesa, come un cielo grigio, ad aspettare l’arrivo del temporale che spazzerà via tutto.
Rumori liquidi lo annunciano.
E nella liquidità di un primissimo piano, un dettaglio su occhi affogati dal sudore, sta racchiusa l’inconsistenza umana.
Lei è in bilico sul cornicione.
Lui la vede, di nascosto. E rimane immobile.
In quello sguardo sciolto nella vigliaccheria, che guarda senza agire, che si decompone nella violenza dell’indifferenza, si nasconde tutto ciò contro cui vale la pena lottare.
Per restituire un significato alle parole e ai silenzi.
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venerdì 15 agosto 2008

GOCCE DI VITA


Fast Rewind.
La voce le esce un po’ metallica.
Forse il nastro è consumato?
O forse è solo il ricordo che...

Qualche volta i ricordi si trasformano in struggenti ologrammi.
Basta poco per accenderli: un lampo improvviso, la scia di un profumo antico, il frammento fumante di un sogno esploso.
E la memoria plasma una nuova dimensione, intima e personale, in cui riprendono vita situazioni, scenari e persone.
E vorresti nuotare in quel mare che hai sempre sognato, e sfiorare le sue labbra sorridenti con un bacio.
E vorresti accarezzarla e fare l’amore con lei, come fa il cielo con il mare.
Ma le tue carezze fendono un fascio di luce, immagini incorporee colate da un tempo che ormai è passato.

Così, può capitare che una fitta lancinante di solitudine ti trafigga l’anima.
E ti chiedi perché. Perchè una vita fatta soprattutto di dolore è l’immagine più ricorrente?
E per un attimo vorresti avere a disposizione un programma di montaggio per tagliare e cucire la tua vita: un collage di immagini e di emozioni da far scivolare sulla timeline, tagliando i tempi morti, aumentando la luminosità, costruendo una narrazione veloce che sappia colpire ed emozionare.
Poi non sempre le storie vanno come desideravi, e ti ritrovi a fare i conti con una vita che invece è fatta della stessa sostanza dei sogni: carica di attese e gonfia di speranze, satura di paure e traboccante di malinconie.
Cosa ti rimane da fare, intrappolato in quell’eterna dissolvenza incrociata tra la realtà e il sogno?

Oltre la fragilità.
Al di là delle illusioni e degli ologrammi.
Oltre le barriere delle solitudini.
Al di là delle assenze, delle distanze, degli abbandoni.
C’è qualcosa che si illumina, piccoli fuochi che si accendono nella notte, timide magie che come per incanto ti risvegliano dal torpore notturno in cui stavi precipitando, insieme ai tuoi incubi.
Il segreto?
Forse, si tratta semplicemente di saper valorizzare i doni che ricevi esattamente nell’istante in cui accadono. Non sempre e inevitabilmente dopo.
Saperli vedere, i doni che la vita ti riserva, e coglierli, viverli.
E sentirti pieno di vita.

La salita ti aggredisce, le gambe fanno fatica a girare sui pedali, tra i lividi viola e le gocce di paura che ti imperlano il viso... Ma quanto batte il cuore quando arrivi in cima? Il sole tramonta dietro le linee scure delle montagne, lasciando incastonate sul lago scaglie dorate... riflessi che navigano dolci verso il mare, tra onde che baciano le stelle... e orme di piedi nudi sulla battigia, in bilico tra due mondi, tra sorrisi e confidenze... Di che sesso è il mare? Come si fa ad innamorarsi? E i sogni sono farfalle cangianti che volano tra i fulmini... L’urgenza di raccontarsi, con la forza e la bellezza di una fiducia senza limiti. La necessità di condividere non ciò che si ha, ma ciò che si è, aprendo il libro impolverato dei ricordi, e scrivendo nuovi capitoli tra le pagine delle emozioni più intense. E se riuscissi a trovare il coraggio per cambiare la mia vita, mettendomi al servizio degli altri? Ci sarebbero mille sorrisi da donare, piccoli gesti quotidiani capaci di rendere più lieve il peso dell’esistenza. Abbracci, carezze, occhi negli occhi, mani che si cercano e si sfiorano, dita che si intrecciano. Quanto splendore c’è nella condivisione profonda di un’emozione, di una visione, di un modo di essere?

L’amicizia è una forma d’amore, forse tra le più pure.
Perché anche l’amore - senza un rapporto alla base di pura condivisione come l’amicizia – rischia di non bastare, di non saper mettere radici abbastanza profonde.
Perciò, da questo piccolo scrigno di misteri e paure, di fragilità e sogni, di mostri e incanti, prende il volo un dolce e commosso grazie.
Grazie, a chi ancora è capace di amicizia e d’amore.
Grazie a chi sa aprire il proprio cuore.
Grazie a chi sa ascoltare.
Perché è con farfalle come queste che è bello condividere il volo, per librarsi in alto oltre nuvole e fulmini, a sfiorare le stelle.

mercoledì 30 luglio 2008

FRAGILE



Una pioggia di ricordi
disegna cerchi
sulla superficie
di un mare in tempesta.

Precipito
tra dardi di fuoco e vetri scheggiati,
un angelo senza ali
scaraventato
nel vuoto
da un grattacielo in fiamme.

La memoria è inesplosa,
come sospesa
in un cielo grigio
senza vento.

giovedì 19 giugno 2008

"HOMING". TRA BELLEZZA E IMMONDO

Raccogliere i cocci.
Si può passare una vita, nell’affannosa pulizia di ciò che rimane di noi.
Nascondere gli scarti, occultare i rifiuti, provare a re-incollare le schegge di cuore volate via.
Siamo brandelli di carne che si staccano dall’anima, lacerti incontrollabili, frammenti di crisalidi spazzate via dal vento.
Siamo cellule radioattive in movimento, tra cumuli di macerie e spazzatura.

Come si può sentirsi a casa, in un mondo così?
Come si può continuare ad affannarsi per lustrare il pavimento, quando tra gli anfratti dell’anima si annidano mostri ripugnanti e scarafaggi repellenti, in agguato tra i detriti di noi stessi?
Homing - il primo romanzo di Sara Benedetti - affonda lo sguardo nei recessi più intimi e bui.
E lo fa grazie al talento di una scrittura nello stesso tempo asciutta e potente, dolce e rabbiosa.
È la storia di Mariano, professore trentacinquenne, alle prese con i pensieri più scomodi, con le decisioni più dolorose, con una guerra da combattere contro il nemico più vile e feroce: se stesso.
Una vita passata a raccogliere cocci, quella di Mariano, ma scossa dal desiderio di potersi finalmente accettare: dare alle fiamme i sensi di colpa, liberarsi dalle catene delle paure, spezzare il perverso circolo della rassegnazione.
Per sentirsi libero.
E vivo.

“Finalmente qualcuno che crede che i libri possano cambiare la vita”.
Ci siamo conosciuti così.
Ed è stata subito un’emozione stupenda.
Le prime lettere, e le ultime, e le canzoni, i sogni, le paure, i sorrisi, le lacrime. E le stelle.
Stelle appese al cielo, scaglie incorporee che scintillano nella notte, e riscaldano col fuoco della loro dolce polvere.
Stelle sempre accese a cui mi aggrappo per ripensare al tuo sorriso e per farmi commuovere dal pensiero di te e dei tuoi gesti, dalla vita che cambia e ci sorprende, regalando emozioni indimenticabili.
Senza rimpianti, senza nostalgia. Senza cocci da raccogliere.
Perché è bellissimo, sempre, sentirti felice, e profondamente vera.

I libri possono cambiarci la vita?
Scrivere e leggere sono gesti radicali che ci mettono in discussione, e possono aiutarci a modificare e migliorare il modo in cui guardiamo, sentiamo e viviamo il mondo.
Con le parole possiamo sognare e costruire nuove realtà e nuove visioni.
Homing è un libro coraggioso, perché denso di “senso”. Tra le pagine - intense e vibranti - si mescolano sensibilità e intelligenza, ironia e profondità, dolcezza e rabbia.
L’indignazione è uno degli ingredienti più preziosi che muovono la scrittura: indignazione per il modo in cui troppo spesso costruiamo e roviniamo il nostro piccolo universo, per colpa delle nostre viscerali paure, delle ipnotiche debolezze, delle intime fragilità.
Nella difficoltà di una struggente e incompiuta storia d’amore marchiata dallo spettro dell’abbandono definitivo si respira lo spasimo violento e incontenibile del desiderio di condivisione: Rossana è la vera stella che illumina o offusca la strada di Mariano. Presenza spesso fuoricampo, ma potente e magnetica.

Un libro come Homing - con quel desiderio forte di trovare una “casa” intesa come porzione di pianeta in cui sentirsi liberi e veri, senza maschere né costrizioni - è un libro che aiuta a costruire uno sguardo intelligente e profondo sulle relazioni umane, sull’amore, sulla morte.
La libera ricerca delle radici del proprio essere si scontra con le assurde regole che ingabbiano la società e che costringono gli esseri umani più sensibili a sentirsi inadatti, inadeguati, come rottami.
Nel vuoto pneumatico che il sistema tende a produrre, ci vogliono coraggio, pazienza e amore per sgretolare i lati peggiori di se stessi: e il primo passo è sempre riconoscerli e accettarli.
Per ri-costruire un modello di bellezza naturale, capace di valorizzare anche il frammento, le schegge, i cocci.
Senza artifici, senza inganni.
Senza la diabolica tentazione di scaricare sempre sull’Altro ciò che in noi rappresenta lo scarto, il rifiuto, l’immondo, il relitto.

Siamo carne e sangue.
Siamo anima e parole.
Siamo vita che pulsa in un universo che puzza di morte.
Cosa c’è di più costruttivo che cercare un senso e una nuova bellezza nel far convivere in noi stessi magia e diavoleria, sacro ed immondo?

Rimaniamo in silenzio per un bel po’ e nel silenzio la vita mi sembra più che mai una grande questione di debiti. Ma non si tratta di soldi. Il mondo ha a che fare con quei tipi di debiti. La vita è un’altra cosa. Ci sono persone che danno senza gelosia. Guardano e fanno coraggio, sorridono e dicono quello che a loro ci sono voluti anni per imparare, parlano e si respira la vita. A volte tu sei lì a ricevere e hai quasi la certezza che non potrai ricambiare. Non con loro. Potrai farlo con qualcun altro, forse, in un altro tempo. Ma il debito sarà comunque saldato. E loro sanno anche questo. Sanno che prima o poi ripagherai”.
(Sara Benedetti, Homing, Edizioni Clandestine, 2007)





domenica 4 maggio 2008

"LA ZONA": IN VOLO OLTRE LA PAURA

Un battito, lieve e innocente.
La farfalla volteggia nell’aria, come in una danza: lambisce foglie tremanti al vento caldo, accarezza i petali dei fiori nel giardino.
Le sue ali colorate profumano di bellezza, libertà, purezza.
Rasentano un muro, si infilano tra la recinzione.
E si spengono.
Annientate da una scarica elettrica fulminante.
Come può esistere ancora una speranza, se nemmeno le farfalle – creature dolci e innocenti –possono più librarsi in volo?
Come si può non rimanere intrappolati in un mondo fatto di muri, videocircuiti di sorveglianza, schegge di vetro e filo spinato elettrificato, se anche le ali più candide vengono tarpate e annichilite dalla paura di volare?
La zona – opera prima del regista messicano Rodrigo Plà, vincitore a Venezia del Leone d’Oro del Futuro – inizia proprio così, seguendo la traiettoria fatale di una farfalla. Oltra la Zona, oltre quella barriera invalicabile, si staglia uno struggente paesaggio di degrado e povertà: è il Messico degli ultimi e dei diseredati, è la città di chi non ha più sogni da masticare né Dei a cui aggrapparsi. È la terra dove non esiste nessuna speranza di giustizia.

Durante un temporale, un traliccio si abbatte contro il muro che isola la Zona dal resto del mondo. Approfittando del temporaneo blackout dei circuiti di sorveglianza, tre ragazzi si intrufolano nel paradiso proibito. Ma il loro tentativo di furto naufraga tragicamente. L’allarme scatta, e i colpi delle pistole mietono vittime. Soltanto uno di loro, il più giovane, si salva. Ma come scappare da quella prigione? Le videocamere lo braccano, gli abitanti si organizzano, assetati di nuovo sangue: scatta la caccia all’uomo. Miguel è in trappola: riuscirà a trovare la strada per uscire dall’incubo, o finirà anche lui come gli amici, ucciso e gettato nella spazzatura, avvolto in un sacco nero?



La zona è un canto polifonico di autodistruzione.
Ma cos’è la Zona? È una distopia - ovvero una proiezione futura che estremizza gli elementi negativi - o è già qui e ora, nel presente di questo mondo?
La Zona siamo noi.
La Zona è il nostro mondo.
Arroccati dietro cancelli, monitor e privilegi, gettiamo nella spazzatura qualsiasi cosa ci possa ferire, sfiorare, mettere in pericolo.
La storia del ‘900 non ci aveva insegnato che erigere muri su muri non porta che a conflitti, distruzione, annientamento? Le recinzioni dei campi di concentramento cambogiani, i mattoni dei forni crematori nazi-fascisti, le atrocità dei gulag russi, gli occhi onnivedenti del Grande Fratello di Orwell… Cosa rimane di questi insegnamenti, costati la vita di milioni di persone?
La chiusura mentale porta al totalitarismo, forma autodistruttiva per eccellenza.
Oggi, invece di abbatterli, i muri li costruiamo, fuori e dentro di noi.
Senza renderci conto che più alte costruiamo le nostre barriere, più aumentano le disuguaglianze e i rischi reali di essere spazzati via.
Perché?
L’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 - una strage le cui responsabilità sono da attribuire anche a chi sapeva e ha permesso che avvenisse - è soltanto l’esempio più lampante di una strategia di costruzione sociale basata sul terrore.
La paura è il motore di tutto.
Perché la paura la si può costruire, incanalare.
Grazie alla paura si può conquistare il governo di un Paese.
Ma la paura è un’arma a doppio taglio: chi ha paura si trincera dietro i propri castelli, e scaglia i propri dardi infuocati contro qualsiasi elemento si profili all’orizzonte.
Vivendo perennemente nella paura, un popolo si spegne, si impoverisce, diventa sterile.
Oggi giornali e televisioni inquinano la già irrespirabile aria con titoli roboanti sulla questione della sicurezza: un valore assoluto, ormai. Il valore su cui si è fondata tutta l’ultima campagna elettorale, che ha consegnato l’Italia in mano all’arroganza della destra.
Ogni giorno notizie sbattute in prima pagina e urlate a gran voce: incidenti con extracomunitari ubriachi, furti da parte di rom, episodi sanguinolenti come retaggi di culture lontane e diverse. È questo il nocciolo della questione sicurezza? sono queste le situazioni da cui dobbiamo difenderci?
Naturalmente, la sinistra ha le sue colpe. Incapace di produrre una legislazione adeguata a regolare il flusso di immigrazione, colpevole di misure di scarcerazione improbabili, ha creato un vuoto incolmabile tra i propri principi e la percezione sociale della realtà. A differenza della destra, che ha saputo invece cavalcare - grazie al sostegno dei mass-media - le ondate di vittimismo sociale emerse (o create ad hoc) nella popolazione.
Ecco allora che La zona parla anche di noi, strano e fragile popolo in preda alle paure più assurde, che abbiamo trasformato la sicurezza dei nostri privilegi in un valore fondante della nostra vita sociale.


Nella Zona, l’unica legge è quella del più forte.
Miguel viene punito non tanto per ciò che ha effettivamente compiuto, ma per il simbolo che ha profanato: quello dell’isola felice, dell’oasi al riparo dai venti di tempesta del mondo.
La sua intrusione è vissuta come l’invasione dell’Altro. Assoggettarlo alle proprie leggi diventa l’unico obiettivo della mobilitazione collettiva della Zona: leggi che non hanno nulla a che fare con il concetto democratico di giustizia, ma che nascono esclusivamente da un sanguinario desiderio di ritorsione, da una volontà di sterilizzazione della diversità, dall’esigenza di infliggere una punizione esemplare.
Quasi come se il potere fosse soltanto una questione di forza.
E se la presunta superiorità sfociasse in un linciaggio feroce e disumano? La logica che si scopre alla base non è tanto diversa dalle logiche perverse sottese alle torture di Abu Ghraib o alla reazione americana dopo l’attacco alle Torri Gemelle: l’esibizione dei muscoli serve soprattutto per un “uso e consumo” interno, quasi a volersi convincere di essere ancora, sempre e comunque inattaccabili e invincibili.
È un film cupo e claustrofobico, La zona di Rodrigo Plà.
Ed è terribilmente violento: non tanto per ciò che mostra - eccezion fatta per una delle scene più crudeli mai rappresentate sullo schermo - quanto piuttosto per la violenza che lo percorre sottotraccia, oltre la superficie delle immagini.
È la violenza che scorre dentro di noi, nelle nostre vene malate.
Sennò, se non fossimo contagiati dal morbo del terrore dell’Altro, se non fossimo schiavi dell’ossessione “sicurezza”, come avremmo potuto permettere che il governo del nostro Paese finisse in mano a delle persone violente ed esaltate?
Persone che imbrogliano, mentono, deridono, insultano. E che fanno della violenza il loro cavallo di battaglia.
Come dimenticare le figuracce del nostro premier Berlusconi? Dalla seduta all’Europarlamento del 2003, in cui ha offeso un politico tedesco dandogli del Kapò, fino alle più recenti sparate: l’irrisione verso i lavoratori precari, l’imitazione di una mitragliata contro una giornalista russa poi scoppiata in lacrime, perché là quelle cose succedono davvero.
Come ignorare i proclami leghisti, con illustri politici che parlano di 300.000 fucili fumanti pronti a marciare su Roma? O ancora le derisioni verso la religione islamica di Calderoni, le violenze verbali di Borghezio. Le ronde notturne, la visione di una giustizia immediata e sommaria, proprio come nel film messicano.


Scenario fantapolitico distopico, La zona? Purtroppo no.
Ma un film così può aiutarci a capirci meglio. A confrontarci con una visone confezionata in storia. E a riflettere, dall’interno, su noi stessi, sulla nostra società, su quello che stiamo creando o distruggendo.
Solo paura e terrore possono aver portato l’ignoranza e la violenza al potere.
Eppure, nonostante lo sguardo spietato ed ironico e l’ironia acida e corrosiva che lo permea, il film di Rodrigo Plà sa anche tenere accesa la fiamma di una speranza: un piccolo romanzo di formazione che rischia di scomparire nei detriti di una società deturpata.
In mezzo ad una collettività costruita sull’omologazione e sulla condivisione di un’identica forma di giustizia, soltanto il giovane Alejandro riesce ad accendere il cervello e far partire il pensiero, mandando in frantumi in un colpo solo il destino da pecorone che sembrava già scritto per lui. Mentre i suoi coetanei imitano il mondo dei grandi imbracciando fucili, proclamando atroci vendette, assorbendo paure e fantasie perverse, Alejandro si scopre ancora capace di pietas umana: riconosce in mezzo a quello sterile nulla una propria visione della giustizia, e lotta digrignando i denti per metterla in pratica.
Forse, tutto può partire da lì, da una rivelazione intima, profonda, personale.
Forse è possibile ricomporre i legami di un’umanità sfilacciata.
Ma prima di cambiare il mondo, dobbiamo saperci guardare dentro e avere il coraggio di cambiare noi stessi.
E fare il possibile - in ogni istante, con tutte le forze - per impedire che anche le dolci e timide farfalle vengano incenerite dai fili spinati elettrificati.




venerdì 11 aprile 2008

"RIPRENDIMI" RISCRIVIMI RE-INVENTAMI


La spia è accesa.
La videocamera è in modalità REC: l’occhio meccanico è in scena e cattura istanti di “realtà”, vita vissuta che sarebbe comunque accaduta. Forse.
“Riprendimi” è il titolo del film di Anna Negri. Riprendimi, cattura la mia immagine, trasformala in narrazione. Riprendimi, conquistami ancora, fai crollare quel muro di silenzio che abbiamo creato.
“Riprendimi”: una storia dove l’amore e il processo di produzione di immagini si intrecciano, si confrontano, in un dialogo profondo e lieve, ironico e intenso.
Realtà e finzione diventano indistinguibili: due documentaristi seguono – quasi 24 ore su 24 – la vita di una coppia di lavoratori precari dello spettacolo. Lui attore teatrale costretto a vendersi alla televisione, lei montatrice e appassionata ricamatrice di storie: come possono far crescere degnamente il loro piccolo figlio in un mondo così precario?
Ma la storia esce dai binari previsti. Scarta dall’idea originaria, e si trasforma in un crudele spaccato di dolore e separazione, di disillusioni e tradimenti.
Come trovare un senso a quelle nuove immagini? Ce l’hanno un loro significato implicito e incorporato, o il loro senso si può costruire soltanto a partire dall’angolazione dello sguardo con cui le si coglie?
È una domanda ricorrente che travolge in un vortice di dubbi i due documentaristi.
Ma le loro macchine da presa non sono semplici presenze: l’occhio di vetro diventa un vero e proprio personaggio, costantemente in scena e rappresentato.
Gli sguardi soggettivi delle videocamere digitali – sia quelle in scena che quelle nascoste - si fondono in una pluralità di punti di vista e in una molteplicità di emozioni che sfumano una nell’altra.
E il rapporto tra l’amore e l’immagine si arricchisce di nuovi capitoli.
Come dice Lucia, la protagonista, l’amore è ciò che viene dopo l’innamoramento, dopo la passione, quando il desiderio lentamente si sfalda e diventa meno ossessivo e dominante: lì scatta l’impegno, la costanza, la pazienza, e forse anche la passione più autentica.
Innamorarsi di una storia e saperla amare anche quando si rivela inaspettata e spiazzante: è l’unico modo per poterla catturare e raccontare anche attraverso le immagini.
Forse le immagini in sé non significano tanto, pura apparenza bidimensionale. La storia di Lucia e del suo dolore potrebbe essere una storia come tante, già vista al cinema, già letta nei libri. Ma non lo è per Eros, il documentarista: perché nei suoi occhi, nel suo modo di cogliere e riprodurre quella storia, scorre il fuoco di un amore viscerale e segreto. Come avvolto in una soffice nuvola, il cuore e il senso della storia sono dentro i suoi occhi innamorati.
Così, i dubbi sul senso del documentario che sta prendendo forma sono in realtà molto più radicali e investono la propria capacità di amare: il centro della riflessione si sposta sul proprio modo di essere e vivere.
Riprendimi, riscrivimi, re-inventami.
La produzione di immagini e storie capaci di toccare in profondità le corde del senso – in quest’epoca liquida e satura di insignificanza – richiede gli stessi ingredienti dell’amore?


lunedì 31 marzo 2008

IL SUONO DEL SILENZIO



Silenzio.
Ali di farfalla immobili, come cristallizzate.
Come se il tempo si fosse fermato, in volo.
Fotogrammi congelati.

C’è troppo rumore, a volte.
O troppo silenzio.
Deflagrazioni di bombe e granate che sventrano illusioni.
O gocce di rugiada che rimbombano nel vuoto di una cattedrale deserta.

Il silenzio è un dono ed una prigione.
Quando attorno il mondo sembra esploderti addosso, con schegge di sogni brucianti come dardi avvelenati, il silenzio ti invita a seguirlo, con una carezza dolce e sensuale: il fascino della solitudine e del confronto con se stessi, la bellezza del mare che torna a placarsi dopo la tempesta, il delicato fruscio di una foglia verde che cade.
Sa essere lieve e dolce, il silenzio.
Come un bacio su una ferita.
Perché ti aiuta ad ascoltare, a dare significato a gesti, parole, sguardi.
Ti permette di lasciar decollare la fantasia, l’immaginazione, l’interpretazione. E di volare, libero, nel tuo cielo dentro, pieno di stelle.
Forse oggi ci sono troppe parole perché non sappiamo più ascoltare il suono del silenzio.
Parole vuote sparate a raffica per non sentire quella musica.

“…gli amanti, tutti, cercano quella musica,
in quel momento, dentro le parole,
sulla polvere dei gesti, e sanno che,
ad averne il coraggio,
solo il silenzio lo sarebbe, musica,
esatta musica...”
(Baricco, Oceano mare)

Ci vuole coraggio, per sentire il silenzio: momento profondo di condivisione e contatto con pensieri indelebili ed emozioni spesso scomode.
Nell’intimità profonda del silenzio, cerchi di costruire un senso alle esperienze che vivi, al dolore che si tatua nella carne, alle speranze che ti sfiorano come carezze di una brezza gentile.
E questo è un dono.
È un dono saper amare il silenzio e ascoltarlo.
Ma qualche volta l’amore diventa criminale. Così, il folle amore per il silenzio si trasforma in una pericolosa crudeltà. Un’allucinazione, una menzogna.
Un rifugio da se stessi.
E una scusa, una barriera.
Nella bolla di illusione del silenzio si rischia di morire di solitudine o consumarsi per aridità.
Quando il mondo intero diventa lontano.
Quando l’insensibilità indurisce il cuore.
Quando le favole non credono in te.
Quando vorresti abbracciare con forza un sogno che si dilegua.
Quando i desideri pungono come spine.
Quando la carne è malata d’assenza d’amore.
Quando gli occhi rimangono sintonizzati su un canale nero.
Quando il tuo fantasma ti chiede perdono sincero…
È il momento di recidere il fiore del tuo silenzio.

Apriti, scrivi parole infiammate di corpo e anima. Racconta. Manda in frantumi le paure, infrangi le vetrate dei silenzi, e condividi il tuo cuore, le tue emozioni più profonde, dolci e spaventose.
Fai risuonare nel silenzio il frullio magico delle tue ali in volo, verso le stelle.

giovedì 13 marzo 2008

NEL CIELO DI SILVIA

Vorrei graffiare il cielo
e farlo sanguinare:
una pioggia di lacrime rosse
a bagnare
i miei sogni in bianco e nero.

Neri fantasmi sibilanti si aggirano tra le strade della città,
come ladri di emozioni.
I muri di pietra e cemento armato sudano freddo.
Gocce di cristallo cadono a terra,
in un fragoroso frantumarsi di ricordi.
Schegge scintillanti e taglienti,
affilate lame di ghiaccio a sezionare l’eternità.

E ci sono momenti in cui vorresti fermare il tempo,
cristallizzare le lancette che scorrono inesorabili
e nuotare in una dimensione liquida
come gli orologi sciolti al sole di Dalì.
E vorresti urlare a Dio la tua livida preghiera,
e non essere così fragile,
per salvarla.

Il pensiero dei tuoi baciosorrisi sfiorati mi fa piangere.
Quanta musica c’è dentro questa rabbia soffocante?
Sei tatuata sulla pelle di un’anima
che si stacca a brandelli.
Brividi.
Le parole si spengono.
Mute, di fronte al cancro della morte.
Perché anche la bellezza deve morire?
Foglie che si agitano nel vento,
petali che cadono in ralenty senza più colore,
ali di farfalla che si arenano tra folate impietose.

…spine di rosa urlanti artigli unghie urticanti grumi di sangue ferite cicatrici velenose lacrime tossiche mani scorticate baci avvelenati ruggine e polvere…

“I know someday you'll have a beautiful life,
I know you'll be a star
in somebody else's sky, but why
Why, why can't it be, why can't it be mine?”

Forse, è anche per questo che esistono le favole:
piccoli fiori che si aprono in faccia all’infinito,
racconti come piccoli raggi di sole per illuminare un universo
ancora capace di speranza.
Quando la crudeltà sembra annientare anche l’amore,
quando la tristezza lascia senza fiato…
Quando le domande si scontrano col mistero,
quando la voglia di vita sussurra vendetta…
Tu ci sei.
Tu sei lì, ad accendere stelle,
scintille che rischiarano il buio del silenzio.
Anche la luna, innamorata di te,
sta scoccando frecce di fuoco.

Alzo gli occhi.
Il cielo sopra e dentro me è trapuntato di stelle.
Perché il tuo amore non è andato perduto,
lo sento:
sei dentro le persone che hai amato.
E ci resterai per sempre,
dolce angelo sensuale.
Sempre, fino all’ultima goccia di miele e di vita.
Quanta magia c’è nell’amore?

Ti voglio bene. Per sempre.



venerdì 29 febbraio 2008

LACRIME E RUGIADA


Le tue ali fendono il cielo,
tra mare
e polvere di stelle.
Piume bianche
che galleggiano nell'aria,
ali d'angelo, lievi.
Ancora cariche d'amore.

Gocce di dolcezza
colano
dalle emozioni squadernate
dei ricordi
a curare
il silenzio sanguinante
del tuo volo.

Le domande si frangono
come onde
contro
il buio.
Pugni di sabbia
negli occhi
a graffiare la vista,
accecata di rabbia.

giovedì 31 gennaio 2008

OCCHI DI CARAMEL


"..bisogna cercare di capire, lavorando di fantasia,

e dimenticare quel che si sa in modo che l'immaginazione
possa vagabondare libera,
correndo lontana dentro le cose
fino a vedere come l'anima non è sempre un diamante
ma alle volte velo di seta,
immagina un velo di seta trasparente,
qualunque cosa potrebbe stracciarlo,
anche uno sguardo..”
(Alessandro Baricco, Oceano mare)














Uno sguardo profondo, intenso e seducente.

Occhi scuri, ciglia lunghe.
E un corpo meraviglioso, diaboliche curve e pelle angelica.
Come si può resistere ad un fascino così lucente?
Il poliziotto innamorato spia da lontano la sua amata. I suoi occhi scivolano dalla finestra e risalgono lungo le gambe, i fianchi, il ventre della ragazza, fino a posarsi sul suo sorriso, come in un dolce bacio.
Lui la divora con gli occhi, lei lo guarda senza vederlo.
Lei sorride, e parla al telefono. Le scappa qualche risata. Lui immagina di essere dall’altra parte del cavo, e le parla. Lei non può sentirlo, ma è come se gli rispondesse.
Una conversazione impossibile che diventa vera.
L’amore rende reale anche l’immaginario. E lo fa con dolcezza, con sensualità e passione, con il desiderio di aprirsi e donarsi.
Occhi pieni d’amore.
È questo sguardo che tocca le corde più sensibili, in un film come Caramel di Nadine Labaki.
Perché il destino delle immagini è nei nostri occhi.
Ed ecco allora che il cinema della regista/attrice libanese scruta in fondo ai propri occhi.
Occhi aperti all’amore, gli unici in grado di accogliere altre visioni e altri sguardi, e di interagire, stabilire alchimie, creare relazioni e reazioni.
In un mondo massmediatico sovraffollato di banalità e immagini che galleggiano sul filo della vacuità, Caramel, nella sua splendida semplicità, sembra volerci ricordare il valore dello sguardo.
Perché il tutto e il niente non sono mai soltanto nello statuto onotologico delle immagini, ma piuttosto negli occhi che queste immagini cercano di decifrare e interpretare.
Il segreto? Uno sguardo lieve e soffice, come una carezza di vento sulla pelle.
E occhi pieni d’amore.
Lasciare spazio e tempo alla fantasia degli sguardi.
Senza troppe mielose e inutili parole, senza la necessità di sdolcinatezze e ruffiane effusioni.
Soltanto occhi, gonfi di speranze e lacrime d’amore.
Come quelli della ragazza e del poliziotto.
Come quelli della moglie tradita.
Come quelli della sarta e del suo inaspettato e disperato amore.
Come quelli dell’anziana bambina senza freni sulla lingua.
Con delicatezza e sensualità, l’occhio della macchina da presa si immerge nel misterioso mondo della femminilità, raccontando semplicemente sentimenti intimi ed emozionanti.
E anche questo è il cinema: uno sguardo languido e passionale capace di posarsi sulle storie con desiderio e amore.