mercoledì 5 novembre 2014

UN'ALTRA MESSA A FUOCO






L’orrore esiste, non si può fare finta di niente. Oltre il silenzio complice e colpevole dei mezzi di comunicazione, ci sono immagini che gridano. Come quelle realizzate a Odessa, in Ucraina, il 2 maggio 2014, terribili istantanee di crudeltà e morte. Una donna incinta strangolata con il filo del telefono, la schiena spezzata appoggiata sulla scrivania, la pancia nuda all’aria. E ancora, corpi carbonizzati ammassati lungo le scale, volti sfigurati dalle fiamme e dai proiettili, cadaveri martoriati. Se dovessimo credere ai media italiani, si sarebbe trattato di un «tragico incidente»: in seguito ad alcuni scontri tra sostenitori del governo di Kiev e civili filorussi, «almeno trentotto persone» avrebbero perso la vita in «un incendio divampato all’interno del Palazzo dei sindacati».
Nella società liquida e circondata da schermi, dove la suggestionabilità dell’homo videns sta surclassando la capacità di pensiero dell’homo legens, un messaggio trasmesso dalle Tv di tutto il mondo è più autorevole della sua eventuale smentita. Quotidianamente vengono scritte per noi sceneggiature, copioni per farci immergere in una storia nella quale il nostro ruolo dovrebbe essere soltanto quello dello spettatore passivo. Da sempre la questione della costruzione delle notizie e dell’agenda setting è alla base degli studi sul giornalismo. Analizzando il modo in cui è descritta la guerra in Ucraina, emerge con lampante chiarezza che l’informazione mainstream è un influente impianto narrativo che, attraverso distorsioni frequenti, si sta macchiando di negazionismo. I pochi dati che filtrano, quindi, sono inseriti in un framing menzognero derivante da un’unica interpretazione politica, figlia di una concezione americana/ europeista che vede nella Russia di Vladimir Putin il nuovo grande nemico da combattere.
Ma ci sono immagini che non fingono, e che per la loro forza intrinseca non si prestano a falsificazioni. Le fotografie amatoriali della carneficina di Odessa sono spaventose, potenti. Troppo potenti. Non possono essere manipolate.
Ed è per questo che sono relegate nel silenzio, perché andrebbero contro l’idea che il giornalismo mainstream vuole far passare. Senza essere dei detective o dei semiologi, basta osservare con attenzione quei macabri scatti per comprendere che i fatti non possono essere avvenuti come sono stati riferiti. Molti dettagli non reggono alle versioni ufficiali. Come spiegare quei corpi parzialmente bruciati, ritrovati in stanze non coinvolte dall’incendio? E la foto della gestante strangolata? Non ci sono spiegazioni. Non ci possono essere giustificazioni per la brutalità. Sono immagini simili ad altre già viste nel corso della Storia. L’orrore non va nascosto, va raccontato per avere anche solo una possibilità di farlo cessare.


La controinformazione deve fare i conti con l’infotainment, con i processi di spettacolarizzazione, e con l’intero sistema mediatico. Senza dubbio il Web rappresenta il canale principale per lo sviluppo di visioni non allineate al pensiero dominante. Numerosi sono i siti che, persino nel nostro Paese, tentano di fornire ai lettori spunti di riflessione, sguardi obliqui, interpretazioni differenti. Tuttavia la Rete richiede all’utente la voglia di scoprire, la disponibilità all’ascolto, la ricerca attiva. Proprio dalla curiosità e dalla partecipazione nasce l’interessante esperimento sul Web di Pandora Tv (fondata dall’acutissimo Giulietto Chiesa), generato anche dall’urgenza di provare a dire la verità su quella crisi, utilizzando i contributi del canale satellitare Russia Today.
Le fotografie dal Palazzo dei sindacati di Odessa rivelano la furia di una strage. Su YouTube sono caricati vari filmati che mostrano senza filtri cos’è accaduto il 2 maggio. Accostando i frammenti in un montaggio mentale, si capisce che gli scontri tra fazioni sono stati fomentati e usati come pretesto per provocare disordine. Nelle riprese notiamo la complicità delle forze di polizia. Vediamo ragazze preparare bombe Molotov da lanciare contro l’edificio. Sentiamo le urla disperate della donna incinta che chiede aiuto e una voce, tra la ressa, che grida: «Non è una donna, è una separatista!». Qualcuno vola giù dalla struttura in fiamme, sfracellandosi al suolo. Dal terzo piano un assassino sventola la bandiera ucraina. La folla esulta. Il pogrom - parola terribile, che speravamo dover leggere esclusivamente sui libri di storia - è compiuto. Video e istantanee come brandelli di una vicenda da ricomporre, per ricostruire un’agghiacciante realtà: le oltre cento persone barbaramente trucidate dentro il Palazzo dei sindacati erano dei semplici civili che protestavano contro il governo del loro Paese. Sono stati massacrati da squadre di Pravyi Sektor, il collettivo di estrema destra ultranazionalista, con la connivenza delle autorità. Bisogna chiedersi perché i telegiornali non parlano di un feroce crimine di matrice nazista, perché nessuno diffonde le riprese (sempre amatoriali e reperibili sul Web) di quelli che sembrano ordigni incendiari al fosforo bianco piovuti dal cielo di Sloviansk.
Per quanto siano devastanti, le immagini da sole non sono sufficienti. Per innescarle è essenziale assicurare una giusta visibilità, parlare del loro significato, come se fosse un obbligo morale. Uscite dall’oscurità, queste immagini ci interrogano, ci costringono a pensare. Guardano negli occhi la nostra umanità, e la nostra vigliaccheria. Perciò sono necessarie, anche se ci spaventano da morire.


(L'articolo è stato pubblicato su Marla - Cinema alla fine delle immagini, N. 2 giugno/luglio 2014.
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