lunedì 24 ottobre 2011

FACEBLOCK


Il fumo si leva alto dalle strade.
Bruciano carcasse di automobili, motorini, cassonetti.
Roma, 15 ottobre 2011.
La violenza dei black bloc si scatena nella capitale. La manifestazione degli indignati - e la sua rappresentazione - viene inquinata letalmente dal progetto eversivo dei giovani incappucciati.
Chi sono i black bloc, e quanti sono?
1.891, quelli schedati dalle questure d'Italia. Di destra e di sinistra. Alcuni dalla doppia vita. Ma tutti pieni di rabbia. Addestrati nelle palestre della Grecia, della Val di Susa. E, per questo, sotto sorveglianza.
Perché, allora, hanno avuto il campo libero per mettere a ferro e fuoco la città eterna?
La loro ribellione violenta, magari spontanea, è in ogni caso destinata al fallimento: in primo luogo perché distruttiva, senza nessuna volontà di costruire o proporre un'alternativa al sistema contro cui si vorrebbe scagliare. E poi perché un comportamento del genere non può che essere strumentalizzato.
Così, lungi dall'essere la miccia esplosiva del sistema malato che combattono, i black bloc ne diventano parte integrante. Non possono o non vogliono rendersene conto? Oppure lo sanno, e recitano la parte dei finti alternativi?
Questo può spiegare, in parte, l'iniziale immobilità delle forze dell'ordine, tenute in scacco dalle strategie militarizzate dei violenti, e poi prese a sassate.
Ma se i black bloc erano volti noti. Se le loro attività erano spiate dalle squadre dell'intelligence. Se i loro profili virtuali erano sotto controllo. Allora, perché è stato loro permesso di distruggere una manifestazione pacifica di protesta, di annebbiare con il fumo delle molotov le ragioni di un movimento che voleva far sentire democraticamente la propria voce per alzarla contro un sistema di potere sempre più corrotto e incompetente, inadeguato e incapace di fornire risposte alla crisi economica e sociale che stiamo attraversando?
L'odore di bruciato è forte.
E i black bloc come arma di distruzione e distrazione sembrano funzionali al sistema di potere attuale. Chi ci sia dietro a questo potere, è tutto da scoprire. Non di certo i politici che occupano le poltrone del parlamento, che, tra richiami alla legge realista e misure preventive di restrizione della libertà personale, non dimostrano un elevato quoziente intellettivo.
Probabilmente, i veri mandanti e gli strateghi dei black bloc lavorano nell'ombra, e sono trasversali rispetto al potere politico. E sono vigliacchi e incappucciati, proprio come i giovani rabbiosi che usano, mandandoli a sfasciare città e idee.

mercoledì 31 agosto 2011

I GUARDIANI DEL DESTINO


Il cinema è illusione. E, nello stesso tempo, verità e illuminazione.
In un mondo sempre più superficiale, così denso di notizie da far sparire dall'orizzonte della necessità la profondità del senso, tocca all'arte il compito di lanciare domande, di porre dubbi esistenziali, di interrogarci sui significati.
Paradossalmente, uno dei generi narrativi che più si addentrano nei risvolti filosofici delle nostre esistenze è uno dei più lontani dalla nostra esperienza quotidiana: quello della fantascienza esistenzialista.
Philip K. Dick, scrittore scomparso nel 1982, ha dedicato la sua vita alla scrittura di romanzi e racconti futuristici ed intimisti. Dalla sua penna sono nate pagine traboccanti di personaggi in bilico tra diverse dimensioni di realtà: esiste un mondo oggettivo? E se il nostro fosse solo il frutto di un'allucinazione, di un incubo collettivo? Quali altre dimensioni parallele o alternative potremmo abitare?
Il cinema, particolarmente attratto dall'occasione di scivolare avanti e indietro dalle sliding doors delle possibilità, attinge spesso ai racconti del geniale scrittore americano. L'ultimo film della lista si intitola I guardiani del destino, ed è tratto dal racconto Adjustement Team - Squadra riparazioni.
Esiste la sceneggiatura del destino, scritta per ognuno di noi? E il libero arbitrio... è un dato di fatto oppure una semplice illusione?
I guardiani del destino, sorta di angeli antropomorfi, non fanno altro che aggiustare le nostre vite, creando a volte quelle coincidenze che ci permetterebbero di non uscire dalla strada già scritta per noi dal "Presidente". Un caffè versato addosso, un autobus mancato, un bacio... Piccole circostanze che possono incanalare, senza che ce ne accorgiamo, le nostre storie verso un finale già scritto.
C'è qualche possibilità di ribellarsi al destino?
Naturalmente, i guardiani sono agguerriti e pronti ad impedire che ciò avvenga. Nel più radicale dei casi ricorrono al reset totale: via i ricordi, via la personalità, via l'intelligenza, in una lobotomia che azzera la persona rendendola un burattino.
Il protagonista del film d'esordio di George Nolfi è un ribelle innamorato. E nel suo destino c'è un ruolo politico importante. Il giovane, appassionato e sincero, potrebbe diventare niente meno che il Presidente degli Stati Uniti d'America. Per questo, quando accidentalmente scopre che i guardiani del destino esistono ed hanno la possibilità di modificare alcuni pensieri ed eventi, non viene resettato. Anzi, gli viene semplicemente raccontata la verità, con la naturale minaccia di tenere la bocca cucita. Ma David Norris non riesce proprio ad accettare che per lui sia tutto già scritto, e soprattutto che la donna di cui si è innamorato all'improvviso non possa far parte della sua vita. La contrapposizione tra sfera politica e dimensione intima è netta, e non lascia molto spazio ai compromessi. Ma cos'è più importante per la realizzazione del proprio essere? L'intensità e la passione con cui David lotta per la propria amata non lasciano spazio a dubbi sulla sua risposta. Eppure, di fronte alla prospettiva di fare del male a lei, interrompendo il suo destino, anche l'eroe romantico va in crisi, dimostrando la propria umanità nel dubbio, nella limitatezza, nella fragilità.
Il romanticismo fantascientifico - che il film riesce ad evocare e a rendere meravigliosamente grazie alla credibilità e all'intensità recitativa dei protagonisti - porta al centro dell'umanità l'amore, non come meccanico destino, ma come possibilità di scelta cosciente e potente.

giovedì 30 giugno 2011

VIOLA (SCHELETRI NELL'ARMADIO)



Viola è energia vitale e liberatrice.
Viola è una sfida all'uniformità della visione.
Viola è metterci la faccia.
Viola è prendersi le proprie responsabilità e affrontare ciò che siamo.

Le maschere sono solo una scusa per nasconderci.
Il mondo che abbiamo cercato di rappresentare è un mondo ibrido, frutto di suggestioni filmiche e letterarie. Un po' fantasy, un po' Orwell.
Il potere è concentrato nelle mani di un caprone che, con i suoi scugnizzi, tenta di controllare l'intero mondo, attraverso un sistema di videosorveglianza continuo e di comunicazione massmediatica. Famiglie inermi di conigli obbediscono passivamente... e i maiali scambiano la Costituzione per un libro di barzellette.
In questo fantasioso e incredibile mondo - assolutamente lontano anni luce dalla nostra realtà di Paese realmente democratico, in cui tutti sanno assumersi le proprie responsabilità - Viola è l'elemento di disturbo.
È la verità scomoda.
È il punto di vista alternativo.
È la nota stonata, ma la più autentica, la più vera.

lunedì 30 maggio 2011

KILLING OSAMA: LA SCENEGGIATURA DELLA MENZOGNA


Un blitz fulmineo, e il mondo si sveglia con un sospiro di sollievo.
Bin Laden è morto.
Bin Laden è stato ammazzato.
Dieci anni di paure vengono vendicati con la morte dello sceicco del terrore.
Se fosse un film d’azione o un thriller, questo sarebbe senz’altro un happy end. Ma si tratta di vita vera. O, perlomeno, dell’esperienza - veicolata e condizionata dai mass media - che ne abbiamo. E, allora, i conti non tornano.
La versione ufficiale è di pubblico dominio: l’incarnazione del Male assoluto, Osama, non si nascondeva in grotte sotterranee o bunker antiatomici. No. Il suo nascondiglio era in una casa con giardino e alte mura, in un quartiere residenziale per militari ad Abbottabad, in Pakistan. È bastato scovarlo, e con un commando fare irruzione e ammazzarlo.
Una scena semplice da immaginare e da vendere: una replica di banali sequenze da action movie. Tant’è che è già stato prodotto un “documentario”, Killing Osama, che avrebbe l’assurda pretesa di raccontare la verità, ricorrendo a delle simulazioni tridimensionali in stile videogioco.
Ma è proprio a questo punto che la sceneggiatura comincia a scappare di mano alla penna degli strateghi e a scricchiolare, fino a crollare completamente, polverizzando ogni certezza.
L’America, in senso esteso, è il sistema culturale che ha prodotto non solo le carceri-lager di Abu Ghraib e Bagram, ma anche la rappresentazione delle violenze subite dai prigionieri, come testimonianza di una presunta superiorità morale e razziale.
Come mai allora non esiste un’immagine del corpo esangue del capo di Al Qaeda?
A sentire i telegiornali, ci sono state furiose riunioni in cui i vertici americani hanno discusso se fosse giusto o meno rendere pubbliche le foto del cadavere di Bin Laden. Alla fine il loro presidente Obama - premio Nobel per la Pace che subito dopo l’uccisione del nemico ha dichiarato “Giustizia è fatta” – ha optato per la non diffusione di quelle atroci immagini. “Troppo impressionanti e disgustose”, affermano.
Ma se quelle immagini non esistessero?
Se perfino il cadavere di Bin Laden non esistesse?
Questo potrebbe spiegare anche la velocità fulminea della sua sepoltura-lampo, avvenuta in mare aperto, senza testimonianze né analisi del DNA. E, per di più, con un procedimento non conforme ai dettami della religione islamica, contrariamente a quanto sostenuto dalle fonti ufficiali americane: un’altra gaffe degli sceneggiatori di questa storia.
Le crepe della sceneggiatura sono così tante e grossolane da rendere palese che molti dettagli della storia sono stati scritti e costruiti per nascondere qualcos’altro.
Forse, semplicemente, il potere americano ha deciso che ormai era giunto il momento di porre fine allo spauracchio del terrorista barbuto, per poter concentrare l’attenzione - e le paure - su un altro fronte emozionale: il focolaio del Mediterraneo, i Paesi nord africani e mediorientali in rivolta. Dove avverrà il prossimo tentativo di esportare la democrazia? In Siria forse? In Libano?
Bin Laden è morto. La sua terrificante icona è stata ammazzata.
Forse il referente reale era morto già da tempo. Ammazzato dai suoi rivali, o deceduto per cause naturali. Magari da qualche anno. Ma l’Occidente aveva bisogno di lui, per tenere alta la tensione, e per incatenare alle paure il popolo suggestionabile.
Stavolta, però, la sceneggiatura della messinscena non regge per niente.
Nonostante le versioni ufficiali e i finti documenti e documentari prodotti, le incongruenze sono così evidenti da non lasciare molti dubbi: la realtà che cercano di spacciarci è una finzione, una griglia costruita a tavolino per ingabbiarci in un’unica visione del mondo. Ma noi ormai questo lo sappiamo, e non lo accettiamo più.


giovedì 31 marzo 2011

SULLE ALI DEL CIGNO NERO



Un brivido si infila sotto la pelle.
Come se il corpo fosse abitato da una creatura misteriosa, che preme, e soffia il suo alito di vento, per lacerare la carne e far spiegare grandi ali nere.

Di che materia siamo fatti? Chi siamo, sotto la superficie che ci connette al mondo?
E dove vanno a finire le emozioni che ci attraversano? Quali mostri abitano i nostri universi di non-detto, di incompiuto, di irrisolto?
Attraverso la messa in scena di un’atmosfera perturbante - un’atmosfera familiare in cui si innesta qualcosa di sconosciuto e pericoloso -, il regista Darren Aronofsky ci fa precipitare in un incubo: Il Cigno Nero è un viaggio negli anfratti più misteriosi della mente, è un thriller psicotico dalle venature horror.
È un film disturbante che toglie il fiato, e fa chiudere gli occhi.

Nina, elegante e algida ballerina, viene scelta come protagonista di una moderna versione dell’opera di Tchaikovsky. Bellissima, spaventata, fragile. Perfetta per interpretare la vittima romanticamente predestinata, il cigno bianco. Ma la danza richiede completezza, autenticità, passione, intensità: dove cercarle per poter affrontare il lato oscuro, il negativo, il cigno nero?
Il tema portante del doppio negativo, dell’alter ego che si fa carico di far esplodere rabbie e frustrazioni accumulate, emerge sia nelle metamorfosi del corpo che nel suo riflesso. E paradossalmente, la dimensione fisica si scatena nitidamente nell’incubo: la ballerina non regge la pressione. La sua ricerca della perfezione si rivela un’illusione, perché non basta l’allenamento estenuante, non basta la precisione tecnica: ciò che conta davvero, per dare corpo e forma ad un’espressione artistica, è la dimensione del sentire. Schiacciata dalle morbose attenzioni di una madre agghiacciante, Nina deve fare i conti con il suo lato oscuro: la sessualità e la sensualità che ha sempre represso sono solo la miccia di una carica pronta a far esplodere le insicurezze, le fragilità, le incongruenze. Tra visioni deformate e percezioni allucinate, la dimensione corporea diventa iper-reale nell’incubo quotidiano di un’esistenza che non riesce più a danzare in bilico tra la realtà e l’immaginario. E così la metamorfosi fisica - che imbruttisce la pelle e spezza le gambe, che fa sanguinare le ferite e che squarcia la schiena - diventa tanto più inquietante e spaventosa quanto più i confini tra percezione soggettiva e realtà fenomenica si squagliano, sciogliendosi in un’identità liquida e multiforme. Un’identità che si ribella anche nei riflessi degli specchi: come nel racconto di Borges, sembra che oltre il vetro palpiti un altro mondo, un’altra creatura che chiede di uscire. Per conficcarsi magari, sotto forma di scheggia, nelle viscere di chi non sa accettare nemmeno le proprie sfumature.
La storia della metamorfosi di Nina nel cigno nero è cruenta e dolorosa, raccontata con struggente intensità e con un linguaggio cinematografico così potente da trascinarci dentro l’abisso delle nostre personali angosce, tra le paure che ci stritolano e le disillusioni con cui cerchiamo di resistere alle macerie che ci rotolano addosso. Per poter conoscere noi stessi e le creature imprigionate nei nostri riflessi. E insieme a loro avere la forza per scrivere un altro finale, e inventare magari un cigno dalle ali bianconere.


lunedì 28 febbraio 2011

I MIRAGE ARENATI


Tunisia, Iran, Egitto. Libia.

Il seme della rivolta sta infiammando il Nord Africa e il Medio Oriente.

Tante persone sulle strade, per gridare contro un potere che incatena.

Tante storie, negli occhi di uomini coraggiosi, con il sogno di un futuro dignitoso, umano, giusto.

I regimi dittatoriali fino a ieri erano sostenuti dall'Occidente: perché?

Non si tratta solo delle dichiarazioni strampalate del nostro folle premier, pronto a prendere lezioni di democrazie da Mubarak e disposto a offrire 200 hostess, rigorosamente bionde e alte, all'amico Gheddafi.

Il problema è molto più profondo.

Perché i nostri Paesi vendono armi & co. ai governi di stampo chiaramente dittatoriale?

Erano Mirage, francesi, i due aerei atterrati a Malta, guidati da piloti disertori che si sono ribellati all'ordine di fare fuoco sulla folla che protestava per le piazze delle città libiche. E sono mercenari, non solo africani, i cecchini schierati per difendere un potere indifendibile, arroccato dietro la strenua difesa di privilegi e ricchezze rubati al popolo.

Ma è facile ora scaricare un dittatore come Gheddafi. Facile e comodo, dopo che per anni lo si è legittimato e coccolato, al punto da considerarlo un attore economico importante, capace di investimenti notevoli anche nel terreno principale in cui si coltivano i denari: le banche.

E forse è proprio questo il punto cruciale: pur di poter portare avanti i propri affari sporchi, che puzzano di petrolio e polvere da sparo, il sistema occidentale si appoggia anche sulle risorse finanziarie dei Paesi più poveri. Cosa contano i diritti umani e la democrazia quando si possono mettere in circolo nuovi soldi?

Far entrare un Paese in sviluppo nel sistema economico occidentale significa non solo riceverne parte delle ricchezze, e quindi impietosamente sfruttarlo, ma anche inglobarlo nella propria rete, e in questo modo esercitare un'influenza e una pressione schiaccianti. Nell'apparenza di un sostegno economico si nasconde un assoggettamento, una riduzione del diverso al medesimo, ad una parte di sé: il dominio si esercita anche attraverso la costruzione di orbite economiche, culturali, sociali.

Saremo mai in grado noi di far brillare ancora i nostri occhi, come quelli dei nordafricani in rivolta, per accendere e scatenare la rivoluzione contro l'ipocrisia dei nostri sistemi politici ed etici?


lunedì 31 gennaio 2011

FARFALLE IN AVARIA


Il mio nome è Myriam.

E vomito rabbia.

Come sarebbe a dire. "Per cosa?". Come fate a non rabbrividire davanti allo specchio? Forse vi dimenticate di tutte le vostre creature mostruose nascoste sotto quel sottile strato di vetro: demoni iridescenti, fantasmi ululanti, virus silenziosi...

Ma io non dimentico. 

E continuo a sputare indignazione, e a vomitare rabbia.

Per queste lacrime salate, inutili e incomprese.

Per le vostre repubbliche democratiche fondate sulle menzogne.

Per i missili che partono dai vostri occhi indifferenti.

Per le portaerei da cui decollano solo insulti.

Per i vostri amori guasti.

Per le mani curate e nascoste nelle tasche dei vostri vestiti sfavillanti.

Per le preghiere ad un Dio in cui non credete.

Per i crocefissi a testa in giù appesi come Mussolini alle pareti dei vostri armadi.

Per i fallimenti custoditi gelosamente nei bunker delle vostre banche assassine.

Per i vostri sogni in blackout.

Per i vostri pavidi modelli di eroi.

Il mio nome è Myriam. Ho la pelle nera e bianca, gialla e olivastra.

Sono intrappolata dentro i vostri specchi.

Ma non smetto di vomitarvi addosso la mia rabbia. 

Quando contemplate i vostri romantici tramonti di colore fosforescente-inquinamento.

Quando usate l'eye liner per andare in guerra. quando dipingete le vostre facce con i colori dell'ipocrisia.

Quando non potete proprio mancare al ballo mascherato del potere.

Quando sbagliate la mira.

Quando le colpe vi esplodono addosso.

Quando respirate a pieni polmoni le nubi tossiche del vostro benessere.

Quando riempite di merda le vostre ali.

Il mio nome è Myriam. 

E sono dentro di voi, a vomitare nel vuoto la mia rabbia.