giovedì 30 settembre 2010

PROIETTILI CHE NON FANNO MALE: "LE ULTIME 56 ORE"

La storia - Reduce dalla “missione umanitaria” del Kosovo, il colonnello Moresco vuole fare in modo che venga riconosciuto il collegamento diretto tra l’esposizione all’uranio impoverito e la leucemia che ha colpito molti soldati. Sceglie così di mettere sotto assedio un ospedale per ottenere visibilità. Ma di fronte si troverà un negoziatore dalle motivazioni altrettanto forti.

Proiettili che uccidono a scoppio ritardato. Corpi virili di uomini coraggiosi inchiodati ad un letto, senza scampo. È difficile combattere contro un nemico invisibile, letale, che si incunea dentro la carne per esplodere in un tempo successivo. La guerra, con i suoi veleni e le scorie radioattive sparse sui campi di battaglia, ammazza senza tregua soldati e civili anche dopo la sua ufficiale fine. È sullo spunto, romanzato ma realista, delle conseguenze dell’uranio impoverito che si fonda Le ultime 56 ore. Gli effetti collaterali di un’operazione di pace, la burocratica indifferenza delle istituzioni, il confronto con lo spettro di una lenta agonia: sono temi scottanti e insidiosi, che raramente il cinema italiano ha affrontato con un linguaggio di genere. Il regista Claudio Fragasso - la cui filmografia spazia dall’horror di Monster Dog alla denuncia sociale di Teste rasate - sceglie di alternare l’accattivante linguaggio di un action thriller dai ritmi serrati ad un registro melodrammatico più dilatato, in cui sono sensazioni e sentimenti a venire a galla. Il topos narrativo del “sequestro per giusta causa” trova espressione nella decisione del colonnello Moresco di irrompere in un ospedale siciliano con la sua squadra - una vera e propria cellula tumorale all’interno del corpo dello Stato - e di sequestrare medici e pazienti: la scelta di inseguire rivendicazioni pacifiste attraverso un atto linguistico armato è una provocazione o una folle violenza? A fronteggiare l’intricata situazione è il negoziatore Manfredi, coinvolto emozionalmente nella tragedia perché moglie e figlia sono tra gli ostaggi: il suo istinto e la sua carica sentimentale si oppongono con forza alla disciplinata lucidità del militare ribelle. Ma dietro l’apparente follia di un militarismo esasperato e provocatoriamente insensibile si nasconde in realtà un progetto di rappresentazione mediatica, che mira a sfruttare la notiziabilità televisiva come cassa di risonanza per toccare la sensibilità sociale: ed è proprio questa fusione di realtà e finzione, con tutte le sue implicazioni anche meta-narrative, a rappresentare uno degli aspetti più originali per il panorama cinematografico italiano. L’intreccio dei linguaggi getta però ombre lunghe sul confezionamento del film, che trova nell’eccessiva enfasi retorica in stile fiction televisiva uno dei suoi limiti strutturali. Coraggioso nelle intenzioni, Le ultime 56 ore gioca sui paradossi morali, rimanendo intrappolato in se stesso: come se la richiesta di “proiettili che non facciano male” fosse la metafora di un cinema impegnato che non riesce però a farsi vettore di trasformazioni reali, spegnendo l’esplosiva carica di denuncia dentro lo schermo.

(pubblicato su "Duellanti")