venerdì 30 aprile 2010

LUCCIOLE CONTRO LE BOMBE. "L'UOMO CHE VERRA'"


Una preghiera nel silenzio.

È notte, sulla cima della collina, mentre il cielo sopra Bologna lampeggia di esplosioni fragorose.

Una donna incinta lancia al cielo le sue speranze.

Accanto a lei, seduta sull’erba bagnata, la piccola Martina: una bambina di otto anni che ha scelto il silenzio dopo la morte del fratellino.

Piccole luci si accendono. Fragili, timide. Come soffi di vita.

Sono lucciole, schegge che brillano in una notte feroce.

È questa una delle immagini più poetiche e dense de “L’uomo che verrà”, film di Giorgio Diritti che racconta la speranza in un’umanità migliore attraverso una delle pagine più cupe della storia, l'eccidio di Montesole.

L'irruzione violenta della Storia nella sfera privata costringe le donne protagoniste ad un simbolico passaggio di consegne: la maternità - intima, sociale, morale - è la chiave d'accesso alla sacralità del quotidiano.


E non a caso sono proprio gli sguardi femminili a raccontare prima la vita quotidiana di una piccola comunità contadina, poi la tragedia. E attraverso i loro occhi filtra tutto: la speranza e la rabbia, il coraggio e l'amore.

Con le soggettive e le semisoggettive, i piani d'ascolto, la macchina da presa che segue la morfologia delle colline della Linea Gotica, "L'uomo che verrà" è il mirabile esempio di un cinema capace di personificare gli sguardi e di scomporli in diversi punti di vista. Così gli orrori della guerra perdono la loro connotazione strettamente politica, strategica, militare, e diventano abissi antropologici, in cui l'intelligenza e la pietas umane annegano in una marea nera di crudele vendetta, di prepotenza e odio accecante.

È la guerra.

Una guerra bestiale, assurda, che monta su se stessa come un vortice. Come un virus impazzito.

Una guerra che non è il teatro di sfida tra angeli e demoni, ma tra persone.

Cosa ci può essere di più tragico?

"L'uomo che verrà" è un film coraggioso, urgente, necessario. Perchè, nel suo prendere corpo e vita sullo schermo, affronta una domanda cruciale: cosa significa essere partigiani oggi?

La ricerca di una risposta non si arena sul paludoso terreno degli schieramenti ideali e politici, ma si concentra sull'umanità più profonda, viscerale, intima. Sulla sensibilità, sulla cura e potenza dello sguardo. L'essere partigiani è una questione di prospettiva, di visione, di costruzione di uno sguardo combattente e combattivo, rivolto al futuro con speranza e con il bisogno - appiccicato addosso, sulla retina - di ricordare e imparare.

In questo senso, quello di Diritti è dunque un film partigiano, che mette in gioco un'idea potente di cinema, grazie ad un linguaggio semplice e intenso, fatto di sguardi e visioni.

Isolata nel silenzio che ha scelto per elaborare un lutto, la piccola Martina non parla, ma sa guardare e scrivere.

Nei suoi occhi vibrano il desiderio e il coraggio di vita.

Dentro i suoi occhi scorre l'invisibile.

E forse è proprio questo che la salva dall'orrore del rastrellamento nazista di Montesole. Silenziosa, invisibile - quasi una creatura eterea, fiabesca, magica - riesce a mimetizzarsi nei boschi proteggendo una vita sbocciata da poche ore.

Come il cinema, la natura umana è fatta di immagini e parole.

Nel mutismo di Martina riemerge con forza, paradossalmente, il valore della parola come strumento di umanità: la ninna nanna finale appena sussurrata, tra le macerie e i cadaveri, è un grido di dolcezza emozionante, la nascita di una nuova speranza.

E magicamente il volo di una lucciola accende la notte dell'anima.