Un’astronave immobile come un macigno sul cielo plumbeo di Johannesburg.
Ferma da 20 anni, sospesa come fosse una sfida alla gravità.
Trasportava un carico di alieni stremati e denutriti, che, in nome di fantomatici diritti civili, sono stati accolti come profughi e ghettizzati in una baraccopoli: schiavi destinati a non poter sfuggire al loro destino.
La solidarietà umana rivela la sua natura verticale e squilibrata: è uno sguardo obliquo dall’alto al basso, che non crea integrazione ma costruisce barriere, costringe in spazi angusti, plastifica l’idea del diverso.
Chi è veramente l’alieno?
Quanto può essere pericoloso per l’integrità umana?
E cosa succederebbe se il mostruoso si contaminasse con il corpo umano, fondendosi per generare un nuovo ibrido?
District 9 - il film firmato dal regista sudafricano Neill Blomkamp - lancia alcuni spunti interessanti, pur naufragando in una sceneggiatura che relega ai margini i risvolti socio-politici dell’idea di partenza, per concentrarsi invece sull’eroe di turno, stupido e cinico all’inizio, e progressivamente - paradossalmente - sempre più umano man mano che acquista tratti “alieni”.
Anche lo stile del racconto cinematografico è contaminato: la fine della centralità della macchina da presa cinematografica è sancita dalla caotica sovrapposizione di immagini amatoriali, rubate con palmari e videofonini, frammenti di videocamere a circuito chiuso, spezzoni di telegiornali. I punti di vista si moltiplicano… Ma di chi sono quegli occhi, quegli sguardi? La confusione è totale, il linguaggio non comunica più, si limita ad accumulare grida sterili, come inutile spazzatura.
Contaminarsi per moltiplicare le capacità dello sguardo… Ma a che prezzo?
Non basta un apparecchio di “riproduzione della realtà” per catturarne l’anima, il senso profondo.
L’alterità del punto di vista alieno non è innocente.
Inglobate nel cuore putrido della megalopoli, le antropomorfe creature extraterrestri diventano parte del sistema, in cui i ruoli di vittime e carnefici si alternano fino a diventare indistinguibili. Rappresaglie e attacchi terroristici come frutto di ignoranza e cecità: è un circolo vizioso che si auto-alimenta e che fa scivolare l’intero sistema nel baratro dell’indifferenza.
Chi semina odio raccoglie solo immondizia.
È uno specchio cannibale che inghiotte le proprie immagini.
Ingoiando i nemici alieni, trasformiamo loro in noi stessi. E noi stessi ci fondiamo con loro. Il processo è duplice, e irreversibile.
L’antidoto?
Forse se esiste - se ne esiste uno - deve avere qualcosa a che fare con la capacità di moltiplicare il senso degli sguardi - umani e alieni, terrestri e celesti - per fonderli in uno sguardo che non si limiti a svuotarsi e a replicare innocui fiori di latta, ma che si scopra capace di creare, di provocare, di stimolare, di scuotere, di inventare.
È un po’ il sogno che il vero cinema, con il suo sguardo ibrido, insieme antropico e macchinico, continua magicamente ad inseguire.