lunedì 2 febbraio 2009

I CONFINI DELLA SOLITUDINE


L'odore nauseante di corpi carbonizzati.

Una ferita autoinflitta, come una tortura per espiare le proprie colpe.

Vittima e carnefice che si fondono e confondono dentro un’unica donna.

E occhi velati di lacrime e rugiada, occhi grandi di bambina.

E lame taglienti, lividi, tir che sfrecciano inevitabili come il destino, come colpi di pistola pronti ad esplodere.

E sangue, rosso e denso, liquido e rappreso, che cola fuori e dentro…


Perché tanta cieca violenza? Perché tanto odio rappresentato, portato su piccoli e grandi schermi, trasformato in spettacolo, spacciato per diritto ed onore di vendetta? Non siamo innocenti, se ci nutriamo di crudeltà per placare e nello stesso tempo alimentare la nostra sete di sangue. Di cosa siamo fatti? Cosa scorre nelle nostre acide vene? Il desiderio raccapricciante e perverso di insinuarsi come un ago sotto la pelle ci fa scoprire infetti. Il virus della violenza è dentro di noi, serpeggia tra i vasi capillari, si annida dentro il plasma, ammorba gli organi interni. Fino ad inceppare i meccanismi del pensiero, fino ad ammutolire le corde del cuore.

L’orrore non si dovrebbe guardare ad occhi spalancati, a meno di non essere costretti da qualche thanatoscopio, come in Imago mortis. Sarebbe più naturale chiudere gli occhi, per proteggersi, per impedire alle nostre retine di imprimere sulla loro naturale pellicola fotografie difficili da bruciare.

Forse, per capirne qualcosa, sarebbe utile una visione più periferica.

Uno sguardo ai margini.

Ai margini anche dell’industria culturale mainstream.

Fiocchi di senso che cadono bianchi e quasi invisibili su un tappeto di neve scura, film come The Burning Plain, Racconti da Stoccolma e Lasciami entrare sanno accendere spunti interessanti.


La solitudine di una donna “maledetta” grida parole che non vogliono uscire. Lei è bellissima, un corpo nudo e perfetto, un corpo che non sa far altro che umiliare e deturpare, nel tentativo di sfuggire al senso di colpa di un passato che la viene a cercare, per ricordarle le sue responsabilità, per farla tornare ad essere donna e madre. The Burning Plain – Il confine della solitudine, del messicano Guillermo Arriaga, è uno struggente gioco di sguardi che si intrecciano in una continua altalena temporale, in cui gli eventi e le costruzioni delle identità ruotano soprattutto attorno ad un episodio di violenza: un intento punitivo che divampa in tragedia e che da quel momento si propaga come un vortice di odio. Perché è difficile accettare di avere dentro il germe del killer, e a volte la fuga nella solitudine sembra quasi una sorta di rifugio, di estrema protezione verso le persone che si potrebbero amare. Quasi un farsi del male per impedire al proprio dolore di propagarsi nel mondo. Riusciranno gli occhi grandi e gonfi di una bambina ad incunearsi dentro questo muto universo segnato da un’esplosione violenta, e a far brillare di nuovo la luce di un sorriso finalmente d’amore?


La violenza sembra nascondersi anche nel dna del tessuto sociale, nelle strutture molecolari delle istituzioni, e perfino nella scena familiare. Come in Racconti da Stoccolma, un film a mosaico, con la regia di Anders Nilsson, che denuncia con coraggio le violenze che le donne di un Paese civile come la Svezia sono costrette a subire. La rivelazione shock? Non c’entrano gli stranieri, i diversi, i “romeni” demonizzati proprio in questi giorni sulle pagine dei nostri quotidiani. I responsabili delle violenze più atroci sono all’interno delle famiglie, indigene o immigrate che siano. E sono padri che picchiano e umiliano la propria moglie di fronte agli occhi allucinati del figlio. Sono madri che, in nome di astratti valori di dignità e rispetto, non esitano a mandare le proprie figlie verso l’inferno di una morte assurda, in un macabro rito di folle difesa di una purezza inesistente. Come ci si può ribellare ad un sistema che nell’ombra del silenzio dà sfogo agli istinti più bestiali di ferocia e repressione, utilizzando l’arma della violenza fisica e psicologica come mantenimento dell’illusorio potere e dello status quo?



La neve cade fitta. 

Gocce di sangue – reali ed immaginate – la tingono di rosso.

Oskar vive nella periferia di una città svedese. Ha dodici anni e sogna di vendicarsi dei compagni di scuola che lo maltrattano e deridono. 

All’improvviso, come un angelo, appare nella sua vita una ragazza, venuta da chissà quale cielo.

Ma lei ha dodici anni da un sacco di tempo, e non mangia caramelle. 

Sancito da un taglio sul palmo della mano, l’incontro delle due solitudini assume la forma di un legame così profondo ed eterno da diventare assoluto.

L’amore non conosce confini, se riesce a sbocciare anche tra un ragazzo timido e una vampira. 

Lei si nutre di sangue umano, è la sua natura.

Il brontolio animale che prepara i suoi assalti feroci, la violenza dei suoi morsi che non lasciano scampo devono essere accettati come parte integrante della sua vita. 

Sono la sua stessa sopravvivenza. Un istinto da controllare, da accudire. 

Un difetto di cui prendersi cura, con pazienza e costanza, per impedirgli di deflagare e di divenire totalizzante. 

E fare spazio, in questo modo, anche per la poesia, per la dolcezza, per il romanticismo.

Lasciami entrare – splendido film di Tomas Alfredson che restituisce anche un’idea di cinema semplice e lieve, dove il lirismo si ottiene con semplicità e sottrazione - è come un sussurro, spaventoso e caldo. È un desiderio, di entrare a far parte della vita, entrando nel cuore di una persona amata, oltre la razionalità, al di là dei limiti e dei pregiudizi.

Perché con quegli immensi occhi scuri – velati di segreti misteriosi, di tristezza abissale e tenerezza infinita -, con quegli occhioni scuri tutto diventa possibile. 

Anche l’amore.