lunedì 30 novembre 2009

GOCCE DI VENTO

...Ed eccoci qui,
tra lame di luce e stelle ubriache,
a scrivere poesie
di vento e nebbia...
Come se soltanto l’invisibile fosse reale,
come se anche il silenzio fosse musica...

sabato 31 ottobre 2009

THE SOUND OF VIOLENCE


Ha un suono costante e fastidioso, la violenza.
Come un sibilo, un alito di vento feroce sul collo.
A volte diventa tempesta, tormenta, bufera. E il sibilo si trasforma in ululato, in urlo.
Brividi lungo il corpo, a far accapponare la pelle.
A volte la violenza esplode.
E divampano le fiamme. Corpi dilaniati, umanità a brandelli. Morte.
Chi ha bisogno di tutto questo sangue?
Chi si nutre di paure e distruzione?

Chi pompa fiele nelle vene della società?

Rappresentare la violenza, raccontarla, interpretarla. È un compito difficile.

Perché di violenza ce n’è troppa, a colare giù dagli schermi dell’immaginario. La sua iper-rappresentazione la rende finta, addomesticabile, meno pericolosa. Omicidi seriali, sparatorie volanti, action movie spettacolari ed eroi guerrieri sono all’ordine del giorno, popolano le nostre televisioni e le storie che ci sparano addosso.

Cronaca nera.

Cronaca di pece e sangue.

E presentatori eccitati che annunciano nuovi massacri, attentati vigliacchi, stragi di famiglia, minacce nucleari.

Ma questo è solo lo strato superficiale, la manifestazione episodica della violenza.

La vera violenza è quella sottocutanea. Quella iniettata nelle vene. Come una droga che provoca alterazione, che uccide il pensiero critico.

È così che funziona il potere. Anche il potere politico.

Con la forza, con la violenza. Con l’illusione - troppo spesso trasformata in quasi realtà - del dominio totale, del controllo profondo. Abituare e anestetizzare farcendo l’immaginario di violenza, per poi accendere le micce esplosive dei detonatori.

Quale compito, allora, per chi vuole produrre immagini libere?

Andare a scoprire cosa si nasconde sotto lo strato apparente delle cose, scivolare sotto le pieghe della realtà, penetrare nelle stanze del potere. E illuminare, per portare alla luce, una violenza fatta sistema, pietra fondante su cui costruire un intero sistema sociale, economico e comportamentale.

Ad esempio: chi sono i veri black block saliti alla ribalta dal ’99 di Seattle in avanti? Anarchici reali o piuttosto infiltrati con la missione di scatenare la violenza per giustificare la violenza, come emerge nel film Battle in Seattle o in molti documentari post G8 di Genova? La metafora è evidente ed inquietante. È il potere, un potere crudele ed indifferente, a manovrare i fili delle tensioni sociali, degli scontri mediatici, dei roghi carnali?

E più il potere è subdolo nel suo tentativo di nascondere e confondere l’origine della violenza, più diventa pericoloso, angosciante, reprimente.

Ma qualche volta non tutto va liscio.

Qualcuno cerca ancora di vedere, senza voltare lo sguardo, senza inchinarsi in spaventate ruffianerie. Ed allora lo sguardo si fa coraggioso e lacerante, spesso difficile da sopportare, ma inevitabile.

Forse qualcosa è cambiato, qualcosa sta cambiando.

Il Divo - film coraggioso che cerca di risalire in alto, nella scala gerarchica dei mandanti di omicidi mafiosi - ha forse il limite di incarnare l’intelligenza del Male in un’unica persona, Andreotti.

Gomorra cerca invece di affondare il bisturi dentro il tessuto sociale, penetrando anche nel popolo, dove la mafia trova seguaci e proseliti senza significative alternative.

Ma di violenza ce n’è troppa, nell’etere. Iper-rappresentata e glorificata, come nelle fiction anestetizzanti su Falcone e Borsellino e su Totò Riina e i casalesi, come in Barbarossa, assurda operazione di stampo leghista che diventa quasi una pornografia della violenza.

E allora il rischio è che un agghiacciante filmato registrato di nascosto, in cui si assiste all’omicidio a sangue freddo di un uomo in pieno giorno, nel centro di Napoli, non provochi abbastanza rabbia ed indignazione, forse confuso tra fiction e realtà.

Cosa possiamo fare, come possiamo combattere un potere che si nutre di noi violentandoci?

Uno sguardo critico e intelligente, un occhio lucido e una mano non-violenta sono ingredienti essenziali per non cedere ai ricatti del sistema. E anzi metterlo in crisi, combattendolo non con le sue stesse armi, ma cercando di svelare il più possibile quali intrecci si nascondono sotto le dinamiche che muovono la società.

Un modo per non rimanere con le ali crocefisse a terra, e tornare a volare.


martedì 29 settembre 2009

ALIENI FUORI E DENTRO

...


Un’astronave immobile come un macigno sul cielo plumbeo di Johannesburg.

Ferma da 20 anni, sospesa come fosse una sfida alla gravità.

Trasportava un carico di alieni stremati e denutriti, che, in nome di fantomatici diritti civili, sono stati accolti come profughi e ghettizzati in una baraccopoli: schiavi destinati a non poter sfuggire al loro destino.

La solidarietà umana rivela la sua natura verticale e squilibrata: è uno sguardo obliquo dall’alto al basso, che non crea integrazione ma costruisce barriere, costringe in spazi angusti, plastifica l’idea del diverso.

Chi è veramente l’alieno?

Quanto può essere pericoloso per l’integrità umana?

E cosa succederebbe se il mostruoso si contaminasse con il corpo umano, fondendosi per generare un nuovo ibrido?

District 9 - il film firmato dal regista sudafricano Neill Blomkamp - lancia alcuni spunti interessanti, pur naufragando in una sceneggiatura che relega ai margini i risvolti socio-politici dell’idea di partenza, per concentrarsi invece sull’eroe di turno, stupido e cinico all’inizio, e progressivamente - paradossalmente - sempre più umano man mano che acquista tratti “alieni”.

Anche lo stile del racconto cinematografico è contaminato: la fine della centralità della macchina da presa cinematografica è sancita dalla caotica sovrapposizione di immagini amatoriali, rubate con palmari e videofonini, frammenti di videocamere a circuito chiuso, spezzoni di telegiornali. I punti di vista si moltiplicano… Ma di chi sono quegli occhi, quegli sguardi? La confusione è totale, il linguaggio non comunica più, si limita ad accumulare grida sterili, come inutile spazzatura.

Contaminarsi per moltiplicare le capacità dello sguardo… Ma a che prezzo?

Non basta un apparecchio di “riproduzione della realtà” per catturarne l’anima, il senso profondo.

L’alterità del punto di vista alieno non è innocente.

Inglobate nel cuore putrido della megalopoli, le antropomorfe creature extraterrestri diventano parte del sistema, in cui i ruoli di vittime e carnefici si alternano fino a diventare indistinguibili. Rappresaglie e attacchi terroristici come frutto di ignoranza e cecità: è un circolo vizioso che si auto-alimenta e che fa scivolare l’intero sistema nel baratro dell’indifferenza.

Chi semina odio raccoglie solo immondizia.

È uno specchio cannibale che inghiotte le proprie immagini.

Ingoiando i nemici alieni, trasformiamo loro in noi stessi. E noi stessi ci fondiamo con loro. Il processo è duplice, e irreversibile.

L’antidoto?

Forse se esiste - se ne esiste uno - deve avere qualcosa a che fare con la capacità di moltiplicare il senso degli sguardi - umani e alieni, terrestri e celesti - per fonderli in uno sguardo che non si limiti a svuotarsi e a replicare innocui fiori di latta, ma che si scopra capace di creare, di provocare, di stimolare, di scuotere, di inventare.

È un po’ il sogno che il vero cinema, con il suo sguardo ibrido, insieme antropico e macchinico, continua magicamente ad inseguire.

lunedì 31 agosto 2009

ARABESCHI STILIZZATI IN ARENARIA

.


Frammenti di cielo
persi
nel pulviscolo stellare.
Bagliori
fulminei
vanno e vengono,
come astri
terrestri
in un giardino
di luce e silenzio.

Luce e silenzio.
Luce che filtra
tra foreste di colonne
e lievi
arabeschi
scolpiti nella potenza
della pietra.
Fantasie
stilizzate in arenaria.
E preghiere
diafane
sputate alle stelle,
frammenti lucenti
di speranze
esplose in volo,
ricadute
come polvere.

Dov'è Dio, che nome ha?
Di cosa ha bisogno
per accorgersi di noi?

Tra l'atmosfera
d'incanto
del respiro di Granada,
tra i colori caldi
delle terre andaluse,
un fiore
coltivato da secoli
continua a inebriare.
La Mezquita di Cordoba:
la magia
di una chiesa senza pareti
sbocciata
nella foresta di colonne
di una moschea.
Un sogno
millenario
che oggi ha il sapore
dell'illusione.

Tra archi
di marmo
che si intrecciano
con ombre e luci,
un messaggio sociale-politico
si accende
e divampa:
un nuovo orizzonte
che si apre,
la possibilità
di un'esperienza
di unione.
Senza distruggere,
senza strumentalizzare.
Costruire
un luogo
dove lo spazio e il tempo
si fondono
in una nuova immersiva
esperienza.
Non un museale cumulo di reperti.
Piuttosto, un teatro.
Un palco da calcare,
in cui vivere
e diventare veri.
Anche una poesia
incisa
sul granito
può trovare le ali
per brillare.

giovedì 30 luglio 2009

GOCCE DI FUOCO

Ogni lacrima di te scava la mia anima.
Ogni goccia di me
scivola
sulla tua pelle.
Sale che brucia sulle ferite:
un dolore di cui non riesco a fare a meno.

“…io voglio far qualcosa che serva,
fammi far solo una cosa che serva.
Dir la verità è un atto d’amore
fatto per la nostra rabbia che muore…”

Musica vibrante e aritmie cardiache.
Battiti e parole
che fanno scoppiare
anche le mie bolle di silenzio
infrangibili.

Che sapore ha la pelle degli angeli?
Abbassare le saracinesche
sull’illusione di star bene ad ogni costo.
E cercare l’invisibile
in una danza
di parole elettriche,
che strisciano strappano ansimano
fanno fatica a respirare
smembrano la gola…

Bolle di silenzio.
Infrante.
Perché
- tra anima e corpo,
tra parole e realtà -
rimangono pur sempre
le mani per creare e
i polpastrelli per agire,
gli occhi per inventare.
E sentirsi vivi.

lunedì 29 giugno 2009

PAROLE DI SILENZIO

...
Un labirinto di libri e scaffali polverosi.
Nascosto, nel cuore profondo della città, tra le sue viscere umide e scure.
È il Cimitero dei Libri Dimenticati.
Un luogo leggendario e magico, dove pagine dense e pericolose riposano al riparo da occhi troppo stupidi.
I dorsi invecchiati sono ricoperti di polvere.
Come si fa a scegliere un libro, uno soltanto?
Acrobazie.
Lancio i miei fili da un ripiano all’altro.
Voglio tessere la mia tela qui, in questo paradiso di polvere e parole scritte con il sangue dell’anima.
Lettere invisibili vergate a fuoco.
E spazi infiniti, tra vertigini e cunicoli, in cui infilarmi.
Perché io sono il ragno.
Sono il ragno che intrappola i tuoi sogni.
Sono lo scarto che inquina il tuo cielo. Il refuso, lo zero.
Sono l’angelo autistico che non ascolta le tue arroganti preghiere,
sono la strada perduta tra le rovine più nere.
Sono il grumo di polvere che intossica l’ingranaggio,
la vertigine del vuoto, il ladro del tuo coraggio.
Sono il rimorso trafitto da un dardo di luna,
sono il mare che cancella le tue tracce sulla sabbia, una ad una.
Perché io sono il ragno,
il ragno immaginario che inquina le tue paure.
E stanotte, nel buio del labirinto, voglio scegliere - impossibile - un libro, uno solo.
Per poterlo divorare.
E nutrirmi di storie, e della tua storia.

giovedì 30 aprile 2009

IL FIORE E LA FARFALLA


La scossa aveva fatto crollare tutto.
C’erano macerie ovunque, attorno. E addosso. Come polvere di sabbia radioattiva.
Il paese di cristallo e cartapesta sembrava scomparso, inghiottito da una terra ribelle.
“Forse ho scelto la notte e il posto peggiori, per nascere”, pensava tra sé il piccolo fiore appena germogliato.
Dalle viscere della terra, in quel parto travagliato e tellurico, era affiorato accanto ad un cumulo di calcinacci, travi di legno, lastre di cemento.
Avrebbe voluto avere le ali, per volare in un bosco, sulle rive di un fiume.
Ma era fatto di petali.

Dall’altra parte della notte, una farfalla tentava di spiccare il primo volo.
Le ali, fragili e incerte, erano appesantite dall’umidità dell’aria: nuvole grigie ed elettriche non lasciavano presagire a nulla di buono.
“Forse avrei dovuto nascere sotto un cielo trapuntato di angeli e stelle”, pensava la farfalla mentre frullava le ali veloci per farle decollare.
Il primo salto fu intenso e breve. Ricadde sul prato, ai limiti di una piccola pozzanghera.
Il cielo perlaceo di nuvole e fulmini era ancora lì ad aspettarla, ma lei non poteva più rimandare l’appuntamento con il sogno.

Polvere. Grani e sassi.
E una sete che lo consumava dentro. Ma il cielo era terso, e di nuvole gonfie di manna non c’era nemmeno l’ombra.
“Ti prego non salire, con la tua calda luce assassina”, era la lancinante preghiera che il piccolo fiore stava lanciando al sole. Preghiera disperata, perché il sole non può ascoltare nessuno, è scritto nei raggi del suo destino. E anche quel giorno l’astro solare si alzò alto nel cielo, scaricando dardi infuocati che resero la terra ancora più arida.
Le radici secche. Il bisogno di una goccia d’acqua… Era un’agonia, per il delicato fiore cresciuto durante il terremoto. Sentiva che tra poco sarebbe ritornato alla terra, inghiottito senza aver potuto schiudersi e colorare il mondo con il suo profumo.
Uno scricchiolio, poi all’improvviso il crollo di un calcinaccio.
Fu quasi un miracolo se il fiore non venne schiacciato. Dopo averlo scheggiato e ferito ad un petalo, quel pezzo di muro crollato gli faceva ora un po’ d’ombra.

Vertigini. La farfalla aveva scoperto di avere le vertigini, disegnando traiettorie incerte nel cielo plumbeo.
Ma stringeva i denti, provando a volare senza guardare all’indietro.
Le prime gocce di pioggia la ferirono. Erano pesanti, per le sue ali tenere. Ma furono i chicchi di grandine a scaraventarla al suolo.
Poi, un vento gentile spazzò via le nuvole grondanti di fulmini e lacrime. Sfiorò le ali della farfalla, e la spinse a librarsi di nuovo in volo, lenta e ferita, ma con la voglia di lottare.

L’universo si fermò in quel gesto magico.
La piccola farfalla, venuta da chissà dove, si posò sui petali del fiore assetato.
L’abbraccio fu così intenso che anche il sole sorrise e impallidì, colpito dalla meraviglia di quella luce.
Nel cuore di quei petali, la farfalla trovò cura a calore. Le sue ali, cariche di rugiada, furono per il fiore nutrimento di vita.
E volarono via insieme, come una farfalla dalle ali di fiore.

martedì 31 marzo 2009

THE BUTTERFLY EFFECT


Ci sono magie per cui non bastano le parole.
Come crepitanti fuochi che si accendono a svegliare la notte addormentata.
Sono battiti d’ali leggeri. Una farfalla che fende l’aria umida del lungo mare e si arrampica verso il sole. Le sue ali magiche muovono il vento, generano correnti, fino a scatenare un uragano dall’altra parte del mondo. The butterfly effect.
Basta poco, alle volte, per accendere il mistero di un incantesimo.
Basta un’emozione dolce che ti morde la pelle.
Un sorriso di luce con labbra ed occhi.
Un bacio improvviso e intenso.
E così, due strade si incrociano e si perdono, tra la terra e il cielo.
Strade da masticare, fatte di sassi e terra, di nuvole e vento, di onde e sale.
…emozioni…
frammenti di vita profumati di tenerezza
tra schegge di infinito
e cocci di fantasmi in frantumi…
L’emozione profonda del mettersi in gioco, rischiando il fuorigioco, per Raccontarsi, per Ascoltarsi. Tra la voglia, la difficoltà e la necessità di donarsi.
E cosa c’è di più splendido che scoprire insieme la possibilità di una luce nel buio più nero?
Ignorare il marchio fragile impresso a fuoco sulla vita,
e costruire un senso, e volerlo, e se non esiste inventarlo,
coltivando l’albero che affonda le radici nella follia.
Follia. Libertà. Verità.
Creare mondi di fantasia più veri della realtà.
Scrivere sogni d’inchiostro su carta di cielo, e riuscire a sentirsi, nello stesso tempo, penna e parola, anima e corpo. E accettare di essere corpo - fragile, vulnerabile, umano, troppo umano. Perché è così che siamo fatti. Di carne sangue desideri. Di mostri e incanto. Di cicatrici inguaribili sul cuore e di brividi che scorrono lungo la schiena. Di folgorazioni e confusione.
Sapranno queste ali da farfalla non spezzarsi nell’occhio del ciclone, tra intensità e timore?
Cos’è l’amore, cos’è la passione? Cosa significa innamorarsi? Saprò donarmi abbastanza, senza menzogne né deviazioni? Sarò capace di sfuggire all’abitudine/orrore di sentirmi invisibile?
Nella ricerca continua di un contatto intimo e profondo
- piccoli gesti di condivisione e dolcezza, cresciuti attraverso sorrisi e lacrime, carezze e desiderio di volare -
anche due paia di piccole ali possono librarsi in voli splendidi, bagnate dalla luce dorata delle stelle.
Grazie, piccola e dolce farfalla, per il cielo che hai deciso di condividere con me!

lunedì 2 febbraio 2009

I CONFINI DELLA SOLITUDINE


L'odore nauseante di corpi carbonizzati.

Una ferita autoinflitta, come una tortura per espiare le proprie colpe.

Vittima e carnefice che si fondono e confondono dentro un’unica donna.

E occhi velati di lacrime e rugiada, occhi grandi di bambina.

E lame taglienti, lividi, tir che sfrecciano inevitabili come il destino, come colpi di pistola pronti ad esplodere.

E sangue, rosso e denso, liquido e rappreso, che cola fuori e dentro…


Perché tanta cieca violenza? Perché tanto odio rappresentato, portato su piccoli e grandi schermi, trasformato in spettacolo, spacciato per diritto ed onore di vendetta? Non siamo innocenti, se ci nutriamo di crudeltà per placare e nello stesso tempo alimentare la nostra sete di sangue. Di cosa siamo fatti? Cosa scorre nelle nostre acide vene? Il desiderio raccapricciante e perverso di insinuarsi come un ago sotto la pelle ci fa scoprire infetti. Il virus della violenza è dentro di noi, serpeggia tra i vasi capillari, si annida dentro il plasma, ammorba gli organi interni. Fino ad inceppare i meccanismi del pensiero, fino ad ammutolire le corde del cuore.

L’orrore non si dovrebbe guardare ad occhi spalancati, a meno di non essere costretti da qualche thanatoscopio, come in Imago mortis. Sarebbe più naturale chiudere gli occhi, per proteggersi, per impedire alle nostre retine di imprimere sulla loro naturale pellicola fotografie difficili da bruciare.

Forse, per capirne qualcosa, sarebbe utile una visione più periferica.

Uno sguardo ai margini.

Ai margini anche dell’industria culturale mainstream.

Fiocchi di senso che cadono bianchi e quasi invisibili su un tappeto di neve scura, film come The Burning Plain, Racconti da Stoccolma e Lasciami entrare sanno accendere spunti interessanti.


La solitudine di una donna “maledetta” grida parole che non vogliono uscire. Lei è bellissima, un corpo nudo e perfetto, un corpo che non sa far altro che umiliare e deturpare, nel tentativo di sfuggire al senso di colpa di un passato che la viene a cercare, per ricordarle le sue responsabilità, per farla tornare ad essere donna e madre. The Burning Plain – Il confine della solitudine, del messicano Guillermo Arriaga, è uno struggente gioco di sguardi che si intrecciano in una continua altalena temporale, in cui gli eventi e le costruzioni delle identità ruotano soprattutto attorno ad un episodio di violenza: un intento punitivo che divampa in tragedia e che da quel momento si propaga come un vortice di odio. Perché è difficile accettare di avere dentro il germe del killer, e a volte la fuga nella solitudine sembra quasi una sorta di rifugio, di estrema protezione verso le persone che si potrebbero amare. Quasi un farsi del male per impedire al proprio dolore di propagarsi nel mondo. Riusciranno gli occhi grandi e gonfi di una bambina ad incunearsi dentro questo muto universo segnato da un’esplosione violenta, e a far brillare di nuovo la luce di un sorriso finalmente d’amore?


La violenza sembra nascondersi anche nel dna del tessuto sociale, nelle strutture molecolari delle istituzioni, e perfino nella scena familiare. Come in Racconti da Stoccolma, un film a mosaico, con la regia di Anders Nilsson, che denuncia con coraggio le violenze che le donne di un Paese civile come la Svezia sono costrette a subire. La rivelazione shock? Non c’entrano gli stranieri, i diversi, i “romeni” demonizzati proprio in questi giorni sulle pagine dei nostri quotidiani. I responsabili delle violenze più atroci sono all’interno delle famiglie, indigene o immigrate che siano. E sono padri che picchiano e umiliano la propria moglie di fronte agli occhi allucinati del figlio. Sono madri che, in nome di astratti valori di dignità e rispetto, non esitano a mandare le proprie figlie verso l’inferno di una morte assurda, in un macabro rito di folle difesa di una purezza inesistente. Come ci si può ribellare ad un sistema che nell’ombra del silenzio dà sfogo agli istinti più bestiali di ferocia e repressione, utilizzando l’arma della violenza fisica e psicologica come mantenimento dell’illusorio potere e dello status quo?



La neve cade fitta. 

Gocce di sangue – reali ed immaginate – la tingono di rosso.

Oskar vive nella periferia di una città svedese. Ha dodici anni e sogna di vendicarsi dei compagni di scuola che lo maltrattano e deridono. 

All’improvviso, come un angelo, appare nella sua vita una ragazza, venuta da chissà quale cielo.

Ma lei ha dodici anni da un sacco di tempo, e non mangia caramelle. 

Sancito da un taglio sul palmo della mano, l’incontro delle due solitudini assume la forma di un legame così profondo ed eterno da diventare assoluto.

L’amore non conosce confini, se riesce a sbocciare anche tra un ragazzo timido e una vampira. 

Lei si nutre di sangue umano, è la sua natura.

Il brontolio animale che prepara i suoi assalti feroci, la violenza dei suoi morsi che non lasciano scampo devono essere accettati come parte integrante della sua vita. 

Sono la sua stessa sopravvivenza. Un istinto da controllare, da accudire. 

Un difetto di cui prendersi cura, con pazienza e costanza, per impedirgli di deflagare e di divenire totalizzante. 

E fare spazio, in questo modo, anche per la poesia, per la dolcezza, per il romanticismo.

Lasciami entrare – splendido film di Tomas Alfredson che restituisce anche un’idea di cinema semplice e lieve, dove il lirismo si ottiene con semplicità e sottrazione - è come un sussurro, spaventoso e caldo. È un desiderio, di entrare a far parte della vita, entrando nel cuore di una persona amata, oltre la razionalità, al di là dei limiti e dei pregiudizi.

Perché con quegli immensi occhi scuri – velati di segreti misteriosi, di tristezza abissale e tenerezza infinita -, con quegli occhioni scuri tutto diventa possibile. 

Anche l’amore.


martedì 13 gennaio 2009

FIOCCO DI NEVE A COLORI



Nel buio, l'eco ancora vibrante dell'esplosione.
La fine di un mondo.
Tra la polvere nera
brillano frammenti lucenti di sogni,
come schegge di specchi magici capaci di imprigionare i colori:
una tavolozza di emozioni
per ridipingere un nuovo universo, da zero.

Vorrei prendere il pennello tra le dita e inventare nuovi accostamenti, far scoccare inedite scintille per accendere i colori. E senza intaccare il mistero della notte, dardeggiare di stelle anche le tenebre più oscure, perché ci sia sempre una piccola fiammella di speranza, una luce accesa a guidare il cammino.
E con il pulviscolo delle comete vorrei scrivere su un cielo di carta carbone scie di parole infiammate di passione, come frecce di fuoco che tagliano l’aria per diventare petali di rosa quando si posano sulla terra. Parole che si trasformano in gesti, baci e carezze, profumati di vita e condivisione, per far fiorire nuovi prodigi.
Vorrei disegnare l’autoritratto di un fiocco di neve, un universo intero racchiuso in una piccola gemma di cristallo, pura e unica. E con la stessa semplicità, vorrei soffiarlo lontano e farlo librare in aria, trasportato dal vento lieve e delicato, per volare e alla fine posarsi su un corpo esanime e martoriato: un fiocco di neve contro la crudeltà della violenza, capace di assorbire, rubare il colore rosso del sangue, per trasformarlo in mille sfumature – amaranto e porpora, carminio e magenta – di vita.
E sciogliersi, diventare acqua, e penetrare nel ventre umido della madre terra, una goccia che sfocia verso il grande mare, azzurro e assassino, dolce e tenebroso, e così attraversare il mondo a cavallo delle onde, tra increspature e maree, tra gli abissi e le stelle, e sceglierne una, una soltanto, mentre cammina sulla spiaggia, in quello spazio tempo sospeso, scegliere lei, come se si potesse scegliere il destino, e mentre continua a camminare, come in un bacio, posarsi con cura sulla pelle nuda del suo piede inarcato, sul suo piede che disegna memorie sulla sabbia, e in quel bacio piccolo e infinito fare l’amore con lei.