venerdì 31 ottobre 2008

TRA MOSTRI E INCANTO

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Sono sempre in agguato, i nostri mostri. E si autogenerano, tra paure e fragilità.

Nel fruscio silenzioso della loro apparente assenza, affilano le armi per l’attacco incombente.

Schegge di inquietudine volano da una parte all’altra dei pensieri.

Piccoli rumori, timidi scricchiolii che annunciano guerra.

Come fermarli, come sconfiggerli? Come provare almeno a lottare per vendere cara la pelle?


C’era una volta l’illusione che i mostri fossero soltanto nel mondo.

Per quanto subdoli, potenzialmente pericolosi, nascosti, sembravano poter essere reali, presenze concrete da fronteggiare a viso aperto, con le spade dell’intelligenza e le frecce avvelenate della vendetta.

Ma poi l’illusione si è sgretolata. Tra acuminati vetri in frantumi, si è fatta largo una domanda: e se i veri mostri fossimo noi?

Come ci insegna Alien, nella sua perturbante e shockante carica sessuale eversiva, maternità e morte sono strettamente intrecciate: partorire un mostro significa un po’ morire.

Ma l’essere umano non è innocente, mai: perché è lui stesso a dare forma all’orrore più mostruoso, a farlo proliferare fino a renderlo autonomo.

Le uova che si schiudono, dentro il suo ventre, sono simbolo della creatura che si ribella al creatore.

Il male nasce dentro l’uomo, come il virus dell’autodistruzione. Non è più una minaccia che arriva fragorosamente dall’esterno. È un mostro mutevole, sinuoso, viscido. Che offusca le possibilità di comprensione negando la propria completa e certa visibilità. Come un lugubre fantasma di luce che danza, eternamente fuori fuoco.


La creatura mostruosa deborda dallo schermo dell’immaginario collettivo, oltre il taglio dell’inquadratura, scivola nel fuori campo e si rifugia nell’invisibile dell’interiorità, offuscandola con lunghe scie di sangue.

Il mostro non è la maschera dell’Altro assoluto, distante e nemico: il mostro è qui, sotto il letto impolverato dei ricordi, tra le lenzuola umide dei nostri desideri.

È il sanguinario vampiro che succhia la linfa vitale dei sorrisi.

È lo spaventoso zombie che ci stringe forte le mani sul collo per soffocarci.

È il violento golem pronto a sgretolarci.

È la creatura senza volto, fantasmatica e informe, misteriosamente sfuggente. Senza occhi per ascoltare, senza carne per vibrare. Una maschera vuota e terrificante, metafora dell’horror vacui, dell’incapacità di sentire e di amare.

Ibridato con l’identità, il mostro è profondo, intimo, viscerale.

E fa paura, perché porta a galla le nostre paure. Le fa esplodere, rischiando di trasformarci in veri mostri. Come in Sweeney Todd, dove, tra fiotti di sangue giugulare e carne macinata, l’umano perde qualsiasi pietas, divenendo mostruoso.


Nel rapporto conflittuale tra angeli e demoni, farfalle e draghi, fate e streghe, si stabilisce un processo osmotico di confronto che assomiglia sempre di più ad un gioco di reciproca seduzione.

Come nel corteggiamento post-romantico de La sposa cadavere, struggente fiaba gotica venata di malinconie e poesia.

Sospesa tra architetture barocche e atmosfere darkeggianti, la promessa sposa si muove tra il grigio mondo dei vivi e un colorato regno dei morti.

Il suo più grande desiderio?

Convolare a nozze con quell’impacciato essere umano che l’ha involontariamente riaccesa di passione.

Insinuarsi dentro l’esistenza dell’uomo e scuoterlo dal grigiore del suo abito impolverato.

Per salvarlo, e rigenerarsi.

Per costruire insieme un rapporto simbiotico paradossalmente vitale, dove vita e morte si intrecciano, in un legame inestricabile.

E pro-creare una nuova forma di identità mutante. Da far librare in aria, come per magia. Come nell’incantevole scena finale, in cui la principessa cadavere evapora in un vortice di farfalle di luce, che volano verso la luna.

Perché anche la farfalle di luce - con la loro delicatezza e mostruosa fragilità - possono essere figlie dei nostri mostri.

E allora dobbiamo imparare a conoscerli bene, i nostri mostri. Ad amarli. E a capire che dentro di noi sono veri, anche se sono soltanto illusioni.