domenica 4 maggio 2008

"LA ZONA": IN VOLO OLTRE LA PAURA

Un battito, lieve e innocente.
La farfalla volteggia nell’aria, come in una danza: lambisce foglie tremanti al vento caldo, accarezza i petali dei fiori nel giardino.
Le sue ali colorate profumano di bellezza, libertà, purezza.
Rasentano un muro, si infilano tra la recinzione.
E si spengono.
Annientate da una scarica elettrica fulminante.
Come può esistere ancora una speranza, se nemmeno le farfalle – creature dolci e innocenti –possono più librarsi in volo?
Come si può non rimanere intrappolati in un mondo fatto di muri, videocircuiti di sorveglianza, schegge di vetro e filo spinato elettrificato, se anche le ali più candide vengono tarpate e annichilite dalla paura di volare?
La zona – opera prima del regista messicano Rodrigo Plà, vincitore a Venezia del Leone d’Oro del Futuro – inizia proprio così, seguendo la traiettoria fatale di una farfalla. Oltra la Zona, oltre quella barriera invalicabile, si staglia uno struggente paesaggio di degrado e povertà: è il Messico degli ultimi e dei diseredati, è la città di chi non ha più sogni da masticare né Dei a cui aggrapparsi. È la terra dove non esiste nessuna speranza di giustizia.

Durante un temporale, un traliccio si abbatte contro il muro che isola la Zona dal resto del mondo. Approfittando del temporaneo blackout dei circuiti di sorveglianza, tre ragazzi si intrufolano nel paradiso proibito. Ma il loro tentativo di furto naufraga tragicamente. L’allarme scatta, e i colpi delle pistole mietono vittime. Soltanto uno di loro, il più giovane, si salva. Ma come scappare da quella prigione? Le videocamere lo braccano, gli abitanti si organizzano, assetati di nuovo sangue: scatta la caccia all’uomo. Miguel è in trappola: riuscirà a trovare la strada per uscire dall’incubo, o finirà anche lui come gli amici, ucciso e gettato nella spazzatura, avvolto in un sacco nero?



La zona è un canto polifonico di autodistruzione.
Ma cos’è la Zona? È una distopia - ovvero una proiezione futura che estremizza gli elementi negativi - o è già qui e ora, nel presente di questo mondo?
La Zona siamo noi.
La Zona è il nostro mondo.
Arroccati dietro cancelli, monitor e privilegi, gettiamo nella spazzatura qualsiasi cosa ci possa ferire, sfiorare, mettere in pericolo.
La storia del ‘900 non ci aveva insegnato che erigere muri su muri non porta che a conflitti, distruzione, annientamento? Le recinzioni dei campi di concentramento cambogiani, i mattoni dei forni crematori nazi-fascisti, le atrocità dei gulag russi, gli occhi onnivedenti del Grande Fratello di Orwell… Cosa rimane di questi insegnamenti, costati la vita di milioni di persone?
La chiusura mentale porta al totalitarismo, forma autodistruttiva per eccellenza.
Oggi, invece di abbatterli, i muri li costruiamo, fuori e dentro di noi.
Senza renderci conto che più alte costruiamo le nostre barriere, più aumentano le disuguaglianze e i rischi reali di essere spazzati via.
Perché?
L’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 - una strage le cui responsabilità sono da attribuire anche a chi sapeva e ha permesso che avvenisse - è soltanto l’esempio più lampante di una strategia di costruzione sociale basata sul terrore.
La paura è il motore di tutto.
Perché la paura la si può costruire, incanalare.
Grazie alla paura si può conquistare il governo di un Paese.
Ma la paura è un’arma a doppio taglio: chi ha paura si trincera dietro i propri castelli, e scaglia i propri dardi infuocati contro qualsiasi elemento si profili all’orizzonte.
Vivendo perennemente nella paura, un popolo si spegne, si impoverisce, diventa sterile.
Oggi giornali e televisioni inquinano la già irrespirabile aria con titoli roboanti sulla questione della sicurezza: un valore assoluto, ormai. Il valore su cui si è fondata tutta l’ultima campagna elettorale, che ha consegnato l’Italia in mano all’arroganza della destra.
Ogni giorno notizie sbattute in prima pagina e urlate a gran voce: incidenti con extracomunitari ubriachi, furti da parte di rom, episodi sanguinolenti come retaggi di culture lontane e diverse. È questo il nocciolo della questione sicurezza? sono queste le situazioni da cui dobbiamo difenderci?
Naturalmente, la sinistra ha le sue colpe. Incapace di produrre una legislazione adeguata a regolare il flusso di immigrazione, colpevole di misure di scarcerazione improbabili, ha creato un vuoto incolmabile tra i propri principi e la percezione sociale della realtà. A differenza della destra, che ha saputo invece cavalcare - grazie al sostegno dei mass-media - le ondate di vittimismo sociale emerse (o create ad hoc) nella popolazione.
Ecco allora che La zona parla anche di noi, strano e fragile popolo in preda alle paure più assurde, che abbiamo trasformato la sicurezza dei nostri privilegi in un valore fondante della nostra vita sociale.


Nella Zona, l’unica legge è quella del più forte.
Miguel viene punito non tanto per ciò che ha effettivamente compiuto, ma per il simbolo che ha profanato: quello dell’isola felice, dell’oasi al riparo dai venti di tempesta del mondo.
La sua intrusione è vissuta come l’invasione dell’Altro. Assoggettarlo alle proprie leggi diventa l’unico obiettivo della mobilitazione collettiva della Zona: leggi che non hanno nulla a che fare con il concetto democratico di giustizia, ma che nascono esclusivamente da un sanguinario desiderio di ritorsione, da una volontà di sterilizzazione della diversità, dall’esigenza di infliggere una punizione esemplare.
Quasi come se il potere fosse soltanto una questione di forza.
E se la presunta superiorità sfociasse in un linciaggio feroce e disumano? La logica che si scopre alla base non è tanto diversa dalle logiche perverse sottese alle torture di Abu Ghraib o alla reazione americana dopo l’attacco alle Torri Gemelle: l’esibizione dei muscoli serve soprattutto per un “uso e consumo” interno, quasi a volersi convincere di essere ancora, sempre e comunque inattaccabili e invincibili.
È un film cupo e claustrofobico, La zona di Rodrigo Plà.
Ed è terribilmente violento: non tanto per ciò che mostra - eccezion fatta per una delle scene più crudeli mai rappresentate sullo schermo - quanto piuttosto per la violenza che lo percorre sottotraccia, oltre la superficie delle immagini.
È la violenza che scorre dentro di noi, nelle nostre vene malate.
Sennò, se non fossimo contagiati dal morbo del terrore dell’Altro, se non fossimo schiavi dell’ossessione “sicurezza”, come avremmo potuto permettere che il governo del nostro Paese finisse in mano a delle persone violente ed esaltate?
Persone che imbrogliano, mentono, deridono, insultano. E che fanno della violenza il loro cavallo di battaglia.
Come dimenticare le figuracce del nostro premier Berlusconi? Dalla seduta all’Europarlamento del 2003, in cui ha offeso un politico tedesco dandogli del Kapò, fino alle più recenti sparate: l’irrisione verso i lavoratori precari, l’imitazione di una mitragliata contro una giornalista russa poi scoppiata in lacrime, perché là quelle cose succedono davvero.
Come ignorare i proclami leghisti, con illustri politici che parlano di 300.000 fucili fumanti pronti a marciare su Roma? O ancora le derisioni verso la religione islamica di Calderoni, le violenze verbali di Borghezio. Le ronde notturne, la visione di una giustizia immediata e sommaria, proprio come nel film messicano.


Scenario fantapolitico distopico, La zona? Purtroppo no.
Ma un film così può aiutarci a capirci meglio. A confrontarci con una visone confezionata in storia. E a riflettere, dall’interno, su noi stessi, sulla nostra società, su quello che stiamo creando o distruggendo.
Solo paura e terrore possono aver portato l’ignoranza e la violenza al potere.
Eppure, nonostante lo sguardo spietato ed ironico e l’ironia acida e corrosiva che lo permea, il film di Rodrigo Plà sa anche tenere accesa la fiamma di una speranza: un piccolo romanzo di formazione che rischia di scomparire nei detriti di una società deturpata.
In mezzo ad una collettività costruita sull’omologazione e sulla condivisione di un’identica forma di giustizia, soltanto il giovane Alejandro riesce ad accendere il cervello e far partire il pensiero, mandando in frantumi in un colpo solo il destino da pecorone che sembrava già scritto per lui. Mentre i suoi coetanei imitano il mondo dei grandi imbracciando fucili, proclamando atroci vendette, assorbendo paure e fantasie perverse, Alejandro si scopre ancora capace di pietas umana: riconosce in mezzo a quello sterile nulla una propria visione della giustizia, e lotta digrignando i denti per metterla in pratica.
Forse, tutto può partire da lì, da una rivelazione intima, profonda, personale.
Forse è possibile ricomporre i legami di un’umanità sfilacciata.
Ma prima di cambiare il mondo, dobbiamo saperci guardare dentro e avere il coraggio di cambiare noi stessi.
E fare il possibile - in ogni istante, con tutte le forze - per impedire che anche le dolci e timide farfalle vengano incenerite dai fili spinati elettrificati.